Un atomo di verità: Aldo Moro e la fine della politica in Italia  – Marco Damilano

SINTESI DEL LIBRO:

 Il luogo del nostro destino
C’è un punto, da qualche parte, in
cui tutto finalmente si incontra, i
suoni, gli odori, i volti, i sentimenti,
le persone, e diventa possibile
conoscere le cose nel loro insieme. I
ricordi dei bambini selezionano,
sono emotivi, non si muovono,
restano fissati lì, incastrati nella
memoria, una volta per sempre, al
contrario dei ricordi degli adulti, che
cambiano, escludono, dimenticano,
tradiscono. Così io di quella mattina
ho ancora oggi la sensazione dolce
di un inizio di primavera. Pochi mesi
dopo avrei compiuto dieci anni:
crescevo, crescevamo, ne avevamo
per la prima volta la
consapevolezza, giocavamo a
pallone, eravamo per la prima volta
gelosi di una bambina, imparavamo
ad allacciarci le scarpe da soli, anche
se a modo nostro, e io non avrei mai
davvero capito come si fa. Quella fu
la giornata in cui diventammo
grandi.
Erano le prime ore di una mattina
di marzo, come tante altre a Roma,
di freddo che sta per finire, con il
sole che lotta per bucare l’inverno. Il
pulmino, un furgone Volkswagen
bianco, arrivava in un orario incerto
intorno alle otto e mezzo e aspettava
con il motore acceso, non lasciava a
piedi nessuno. Dopo molti minuti
vedevi uscire dai portoni e dai
cancelli dei palazzi bambini di corsa
con le cartelle in spalla, piangenti,
raffreddati, scatenati, il
passamontagna giallo calato sul
viso. Scendevo anch’io quando
sentivo suonare il clacson. Al
volante c’era una bionda signora di
origine svizzera, il trucco pesante, i
capelli raccolti nella coda di cavallo,
i guanti di camoscio, allegra e
autoritaria. La signora Tilde era la
direttrice della scuola Montessori di
Monte Mario ed era lei ogni mattina
che passava a prendere gli allievi, in
ossequio al metodo di insegnamento,
per cui tutti dovevano saper fare
tutto.
Il pulmino faceva ogni mattina lo
stesso giro. Partiva da Prati, risaliva
verso la Balduina, dove caricava i
primi bambini, proseguiva verso
Primavalle, Pineta Sacchetti, fino ad
arrivare in piazza Madonna di
Guadalupe, dove c’era la scuola, in
una zona che ancora confinava con
la campagna. In via Stresa salivano
tre fratelli, David, Paolo e Marco, gli
Orlandelli, “tutti biondi-tutti belli,”
scherzava ogni mattina Tilde
facendo sentire noi, che biondi non
eravamo, neppure troppo belli. Poi il
pulmino scendeva, passava
l’incrocio, si fermava davanti al bar
e aspettava Emiliano, che stava
simpatico a tutti, aveva un papà
meridionale con la Mini Minor
gialla e una mamma con il poncho.
Anche quella mattina, come sempre,
Emiliano tardava a scendere.
Mancavano venti minuti alle nove,
in via Mario Fani, il 16 marzo 1978.
Nessuno di noi guardò verso la
siepe del bar sotto casa di Emiliano,
nessuno si accorse di uomini con il
cappello e in uniforme schierati ad
aspettare qualcosa, o qualcuno.
Quella mattina all’incrocio, davanti
alla siepe del bar, non si era visto
Antonio: di lui ricordo anche la
voce, era per noi l’omone con il
camice nero, i capelli radi tirati
all’indietro come un attore
americano, vendeva i suoi fiori
raccolti in un furgoncino e ogni
giorno faceva la stessa scena,
estraeva una margherita e la
regalava alla signora Tilde, che se la
infilava dietro l’orecchio. Lo
rivedemmo poi in televisione, nei
giorni successivi, intervistato dai
cronisti, raccontava che quella
mattina gli avevano bucato tutte e
quattro le gomme del furgone e non
era potuto andare al lavoro. Il fioraio
era un eroe delle nostre giornate,
della nostra epica quotidiana,
pensammo che era come se fosse
andato in tv uno di noi

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