Io sono il potere – Confessioni di un capo di gabinetto – Anonimo

SINTESI DEL LIBRO:
Ci siamo. È il nostro momento. Il mio. Il momento elettrico,
decisivo. Il momento di scendere in campo. Scandito da poche,
marziali parole del segretario generale della presidenza della
Repubblica che rimbombano dalla Sala alla Vetrata del Palazzo del
Quirinale.
La Sala alla Vetrata: fino al Settecento una loggia d’onore, poi
chiusa con cinque grandi finestroni. Quando ci passo non posso fare
a meno di pensare che oggi sarebbe un abuso edilizio da codice
penale,
con
inevitabile
ricorso
al
Tar
Lazio
supportato
dall’Avvocatura dello Stato, nomina di un commissario ad acta per
l’abbattimento e indagine della Corte dei conti per danno erariale.
Dunque, in un modo o nell’altro, me ne sarei occupato io.
Invece per noi capi di gabinetto la Sala alla Vetrata è l’origine del
mondo. Il luogo dove tutto finisce e tutto ha inizio. Una volta all’anno,
mese più mese meno. Per ogni legislatura. Per ogni governo. Per
sessantasei volte da quando abbiamo la Repubblica.
Qui si consuma il rito di iniziazione: l’annuncio della convocazione
del presidente del Consiglio incaricato, l’accettazione dell’incarico
con riserva, lo scioglimento della riserva, la fatidica e mai scontata
lista dei ministri.
Il rito può durare poche ore o mesi. Non ci sono regole precise.
Ogni epoca ha una liturgia diversa. Ogni governo ha una storia
diversa.
La caduta di un governo non è mai improvvisa. Ha almeno tre mesi
di incubazione. Anche se il mio ministro non me lo dice, io arguisco
che siamo ai titoli di coda. Lo respiro nell’aria del ministero, meno
stantia del solito. Nella fretta di chiudere i dossier. Nella gestione
delle nomine. È una lenta decelerazione, la macchina senza benzina
non si ferma dopo un metro.
Invece la nascita di un governo è un’epifania.
L’esperienza mi ha dotato di un’arte rabdomantica per capire quali
sono le parole, i gesti, talvolta i silenzi che segnalano in modo
inequivocabile che un governo si sta formando davvero. Che è
arrivato il momento.
Perché se lo capisci, puoi essere dentro. Ma se fai un passo falso,
se sbagli il momento, resti fuori.
Capita anche ai più esperti. Nel maggio 2018, quando l’ipotesi del
governo M5S-Lega pareva tramontata, alcuni di noi si prodigarono
per far nascere il governo Cottarelli, di cui esisteva al Quirinale non
proprio la lista dei ministri, ma quella dei potenziali ministri, i
cosiddetti “contattabili”. Alla Salute il presidente dell’Istituto superiore
di sanità, Walter Ricciardi. Agli Esteri il segretario generale della
Farnesina, l’ambasciatrice Elisabetta Belloni. Alla Difesa la politologa
Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto affari internazionali. Allo Sport la
campionessa paraolimpica Bebe Vio. Agli Interni il prefetto
Francesco Paolo Tronca. All’Economia l’ex rettore dell’università
Bocconi, Guido Tabellini.
E dietro di loro, i capi di gabinetto erano già in pole position.
Sbagliavano. Quel governo di salute pubblica abortì in poche ore.
Chi aveva scommesso sul governo Cottarelli si ritrovò bruciato. Chi
era rimasto nelle grazie di Salvini e Di Maio si ritrovò capo di
gabinetto dei ministeri principali.
La sera che fu annunciato l’incarico a Cottarelli eravamo a cena. Ci
bastò un sms a un futuro ministro della Lega per intuirne l’epilogo.
“Che succede?”
“Tenetevi pronti.”
La nascita di un governo è il momento in cui ci si guarda allo
specchio e si fanno i conti, come nell’ascensore dopo una serata tra
pokeristi incalliti.
Eccolo, il momento. Adesso. So che per me la resa dei conti è
adesso.
Ancora poche ore e ci sarà la lista dei ministri. Si farà sul serio. Si
formeranno gli staff. E allora basta progetti, alleanze sulla carta e
chiacchiere da calcio-mercato. Si capirà davvero come ho lavorato
nelle ultime settimane.
Se ho seminato bene, sarò dentro. Altrimenti a casa. A fare altro:
lezioni, sentenze, convegni, libri, pareri, arbitrati.
La solita vita. Dorata ma banale.
Non mi va di fare la fine degli allenatori di calcio che ad agosto,
non riuscendo a trovare una squadra decente che li ingaggi, si
accontentano di comparsate televisive e interviste amarcord sulla
“Gazzetta dello Sport”. Il destino di chi resta fuori è inesorabile. E
poco conta se hai già allenato in Serie A o in Premier League, se la
tua bacheca luccica di trofei, se ti senti un José Mourinho costretto
sul divano davanti alla tv, mentre sul prato del Bernabéu viene
acclamato un Oronzo Canà qualsiasi.
Nel mercato del potere il curriculum conta solo per contribuire al
disboscamento dell’Amazzonia. Decidono le relazioni, le affiliazioni,
le convenienze, i crediti, i favori, le ruggini, i rancori, le intese, i
cassetti aperti e chiusi.
E le coincidenze.
Gli allenatori che restano a casa, il mio incubo. A domandarsi se
sono finiti. Bolliti. Esclusi, forse per sempre, dal campo in cui si sta
disputando la vera partita.
Il grande gioco del potere.
A casa sono nervoso. Intrattabile. Disdico gli impegni. Voglio stare
solo.
Solo con i tre cellulari a portata di mano. Può chiamare chiunque,
sempre. E con un occhio su Whats App, su LinkedIn, su Telegram e
su Signal. I messaggi ormai arrivano sui canali più strani, meglio se
non intercettabili e in grado di autodistruggersi.
La telefonata, il messaggio giusto che cambia la vita.
Esco. Vado a correre a Villa Borghese, dove al più incrocio Marta
Cartabia, la prima donna diventata presidente della Corte
costituzionale.
Ripenso alle ultime settimane, riordino nella testa le pedine che ho
mosso. Il mio metodo è cercare di calcolare, quando il governo è
ancora in gestazione, che spiragli ci sono. Dove tira il vento. Periodi
lunghi e difficili. Di trattative. Di attese. Di mosse a scacchi. Non solo
fra i partiti, ma anche fra noi aspiranti capi di gabinetto. Sottotraccia.
Non è facile capire quando esserci e quando no. Perché è vero
che il gioco del potere è come il calcio-mercato, ma con regole
speciali: non sempre far girare un nome ne aumenta il valore. Devi
dosarti, distanziarti, comparire solo al momento opportuno. Non c’è
niente di più patetico di un capo di gabinetto smanioso di incarico,
freneticamente postulante.
Se gli spazi sono stretti, meglio lasciar perdere. Se ne riparla al
prossimo governo.
Se sei in partita, invece, non devi lesinare sforzi.
Io sono in partita.
Ho chiamato e ho fatto accordi con chiunque. Se io faccio il capo
di gabinetto, posso mettere sul piatto un ambìto posto da capo
dell’ufficio legislativo. E viceversa, s’intende. Tua moglie è ancora
direttore generale? Potrebbe spendere una parola per me. Se
conosci bene il futuro sottosegretario, potremmo organizzare un
pranzo. Mi sono ricordato che mi avevi parlato di un bravo dirigente
del ministero che si sente sottoutilizzato, potrei dargli una mano. Tuo
cugino come vice? Perché no.
Accordi che possono valere zero. Ma anche aprire il canale giusto.
Servono a preparare il terreno, a farsi trovare pronti.
Io conosco tutti. Un caffè in piazza Farnese, all’ombra del
Consiglio di Stato. Un aperitivo nei dintorni di piazza Mazzini, feudo
della Corte dei conti. Senza mai dimenticare l’Avvocatura dello
Stato, nell’ex convento agostiniano impreziosito dal refettorio
vanvitelliano dove campeggia il beneaugurante affresco sulla
moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Strette di mano a convegni. Pranzi e cene. La Caffettiera di piazza
di Pietra. I circoli sul Tevere. Visite in Parlamento. Discreti passaggi
a largo del Nazareno. Sui due lati: sede del Pd e uffici di Gianni
Letta. Copertura bipartisan. Anche se negli ultimi anni si sono
aggiunte nuove parti e chi ha visto lontano si è spinto a Milano.
Direttamente in via Bigli, per accreditarsi con la Casaleggio
Associati. O indirettamente attraverso docenti universitari, avvocati e
manager in grado di stabilire un contatto. Io ne conosco qualcuno
nella A2A, la municipalizzata lombarda di gas ed energia.
I
leghisti hanno diverse anime. Quelli della prima ora come
Roberto Calderoli e Giancarlo Giorgetti sono pienamente
romanizzati. Ma i nuovi della gioventù salviniana bisogna intercettarli
a Pavia, a Varese, a Bergamo. Il Veneto è un mondo da coltivare a
parte, perché risponde non a Matteo Salvini ma a Luca Zaia.
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