Taccuino persiano – Michel Foucault

SINTESI DEL LIBRO:
Ai confini dei due grandi deserti di sale che s’estendono nel centro dell’Iran, la terra hatremato. Tabas e altri quaranta villaggi sono stati annientati.Dieci anni fa, giorno dopo giorno, Ferdurs, nella stessa regione, era stata cancellata. Poi, suquesta terra distrutta, sono nate due città rivali, come se nell’Iran dello Scià la stessa disgrazianon potesse dar luogo a una stessa e unica rinascita. Da una parte, la città amministrativa:quella del ministero dei lavori pubblici e dei notabili, un po’ più lontano, gli artigiani e gliagricoltori, contro tutti i piani ufficiali, hanno ricostruito la loro: sotto la direzione di unreligioso hanno raccolto fondi, costruito e scavato con le mani, tracciato canali e pozzi, edificatouna moschea. Avevano, il primo giorno, piantato una bandiera verde. Il nuovo villaggio sichiama Islamieh. Di fronte al governo, e contro di esso, l’islam: già dieci anni fa. Ma chi, oggi, ricostruirà Tabas? Chi ricostruirà l’Iran da quando, venerdì 8 settembre, ilsuolo di Teheran ha tremato sotto i cingoli dei carri armati? Il fragile edificio politico non èancora crollato; ma lo percorrono crepe, dall’alto in basso, irreparabilmente.Nel caldo torrido, sotto le palme che - sole - sono rimaste in piedi, gli ultimi superstiti diTabas si ostinano sulle macerie. I morti protendono ancora le braccia per trattenere mura chenon esistono più. Alcuni uomini, il volto al suolo, maledicono lo Scià. Sono arrivati i bulldozer econ essi l’imperatrice, che non è stata ben accolta. Intanto accorrono dei mollah da tutta laregione; molti giovani discreti, a Teheran, si recano in case amiche per raccogliere fondi primadi partire per Tabas. «Aiutate i vostri fratelli, ma non fate nulla attraverso il governo, e nullaper esso», questo è l’appello che l’ayatollah Khomeini ha lanciato dal suo esilio in Irak.La terra che trema e distrugge le cose può certo unire le genti; ma divide gli uomini politici esegna irreparabilmente gli avversari. Il potere pensa sia possibile sviare verso le fatalità dellanatura la grande collera che i massacri del Venerdì Nero hanno pietrificato in stupore, ma chenon ha disarmato. Non ci riuscirà. I morti di Tabas vengono ad allinearsi a fianco delle vittimedella piazza Jaleh, intercedono per loro. Una donna si chiedeva in pubblico: «Tre giorni di luttonazionale per il terremoto, va bene; ma bisogna forse pensare che il sangue sparso a Teherannon fosse anch’esso iraniano?».Negli alberghi di Teheran i giornalisti, che rientravano sere fa da Tabas, erano perplessi.Ostentatamente i soldati, con l’aria assente, lasciavano uomini e donne grattare la terra edisseppellire i loro morti. Ordini dall’alto? Incompetenza? Cattiva volontà? L’enigmadell’esercito, qui come ovunque.Lunedì 4 settembre la folla lancia gladioli ai soldati, si fraternizza, si piange. Giovedì 7l’immensa manifestazione irrompe nelle strade di Teheran, a volte a qualche centimetro daifacili mitragliatori, spianati ma silenziosi. Venerdì 8, mitragliatrici, forse bazooka, si è sparatoper tutta la giornata; la truppa ha avuto a momenti la freddezza metodica di un plotone diesecuzione.Fin dai primi tempi dell’islam, e soprattutto per gli sciiti dall’assassinio di Alì, l’uccisione diun musulmano per opera di un altro musulmano - e Dio sa se ce ne sono state - conservasempre la forza dello scandalo religioso, che significa ugualmente scandalo politico e giuridico.Per allestire la difesa più urgente si è risposto con un mito. «Quelli che hanno tirato su di noinon erano dei nostri; avevano i capelli lunghi e parlavano una lingua straniera: israelianidunque, trasportati la vigilia da aerei cargo». Ho interrogato un oppositore che, per la posizioneche occupa, sa bene quello che accade nell’esercito. «Sì,» mi ha detto «c’è una cooperazionetecnica dell’esercito israeliano; sì, le forze anti-guerriglia hanno avuto, all'inizio, consiglieriisraeliani; ma nulla, assolutamente nulla permette di affermare che i morti di Teheran sianostati uccisi da stranieri».Dunque: la realtà del potere è ora nelle mani dell’esercito? Esso contiene per il momentol’immensa rivolta del popolo contro lo Scià abbandonato da tutti, anche dai privilegiati. Manelle future settimane, come dicono molti osservatori occidentali, l’esercito prenderà unadecisione?Sembra di no.L’Iran possiede, a quanto pare, il quinto esercito del mondo. Un dollaro su tre delle sueentrate petrolifere è consacrato a questo prezioso giocattolo. Ma ecco: un budget, unequipaggiamento, dei caccia a reazione e degli aliscafi non costituiscono ancora un esercito.Succede anche che un armamento impedisce di creare un esercito.Innanzitutto, non esiste nell’Iran un solo esercito. Ce ne sono quattro: l’esercito tradizionale,che ha un compito di controllo e di amministrazione su tutto il territorio; la guardia pretorianadello Scià, corpo di giannizzeri chiuso in se stesso, col suo reclutamento, le sue scuole, i suoialloggi, alcuni di essi costruiti da una società francese; l’esercito da combattimento, conarmamenti a volte ancor più sofisticati di quelli dell’esercito americano. E poi, trentamila oquarantamila consiglieri americani.Inoltre ci si è astenuti dal costituire qualcosa che assomigli a un vero stato maggioregenerale. Ogni grande unità di questi quattro eserciti è legata direttamente allo Scià. Unapolizia interna le controlla. Nessun ufficiale superiore può spostarsi senza l’autorizzazionepersonale del sovrano. «Uno dei miei colleghi» mi ha detto uno di loro «aveva biasimato lo Sciàper essersi fatto nominare generale nell’esercito inglese; trovava che il giocattolo, stavolta,sapeva un po’ troppo d’epoca vittoriana; e lui, che aveva appoggiato lo Scià contro Mossadeq, siè ritrovato in carcere per tre anni».Nell’Iran del petrolio e della miseria, l’esercito occupa un posto molto importante. Fa viverequattro milioni di persone (un iraniano su sei) secondo gli economisti. Ma questo non basta adargli una base sociale coerente, e nemmeno a farlo partecipare a uno sviluppo economico. Laparte essenziale degli armamenti è acquistata all’estero. Certo, ci sono poi le cosiddette«ricadute economiche», ma sono, per i generali, le commissioni sui contratti e, a livello piùbasso, una piccola manovalanza che viene reclutata in gran numero tra i disoccupati. Nonesiste in Iran una struttura economico-militare solida. Ma non c’è nemmeno un’ideologia dell’esercito. Mai nella storia dell’Iran l’esercito ha potutoavere quel ruolo di inquadramento nazionale, o formare quel progetto politico che si è vistonegli eserciti sudamericani dopo le guerre d’indipendenza. L’esercito iraniano non ha mailiberato nulla. Via via esso è stato marcato dell’impronta russa, poi inglese, poi americana. Haprotetto i suoi sovrani, e ha montato la guardia, a fianco di sentinelle straniere, intorno àiterritori delle concessioni. Non ha mai avuto occasione di identificarsi con l’Iran, né ha volutoaddossarsi l’onere del destino del paese. Un giorno un generale si è impossessato del potere, ma comandava la legione cosacca e vi fu spinto dagli inglesi: era il padre dell’attuale re.Certo tutto può ricominciare: l’ambasciatore americano può rifare il colpo di Ironside,permettendo a Reza Khan di sostituirsi ai Kadjars. O perlomeno imporre allo Scià, come primoministro, un generale di polso. Ma sarebbe solo una soluzione provvisoria. Non si tratterebbe dii ufficiali solidali, malgrado le rivalità personali. Le formule Pinochet o Videla sembrano escluse.
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