Il dolore non dimentica – Fabrizio Fondi

SINTESI DEL LIBRO:
Caterina Ochner spalanca gli occhi e rientra nella realtà. Per qualche
istante galleggia ancora in un vuoto spettrale senza riuscire a capire
chi, dove, come. Quanto è durato quello stato di incoscienza? Per
quanto tempo ha perso il controllo di sé? E cosa è successo durante
quel buio? Le sue iridi celeste chiaro rimbalzano frenetiche per
assorbire le prime informazioni mentre un violento senso di
smarrimento le morde il cuore. Emette d’istinto un grido, ma il nastro
adesivo spinge brutale sulla bocca e le cinge la testa, schiaccia le
orecchie e strappa senza troppi riguardi i suoi lunghi capelli biondi.
Riesce a malapena a respirare. La stanza è buia, in quel momento
assai più simile a una lugubre cella che al sacro luogo riservato alle
sue letture. La finestra è chiusa e l’avvolgibile, quasi del tutto
abbassato, lascia entrare appena un filo di luce che giunge già
sbiadito sulla parete opposta. Sente le mani legate dietro la schiena,
lungo la spalliera di una sedia antica e pesante che dovrebbe
trovarsi dalla parte opposta della casa e che qualcuno ha trascinato
fino alla sua stanza. Prova a muovere le gambe e solo allora si
accorge che le sono state divaricate e fissate alle massicce zampe
della sedia con una stretta che non lascia scampo. Ruota ancora gli
occhi da una parte all’altra della stanza. La porta è chiusa. Molti dei
dipinti appesi alle pareti sono lacerati in modo irrimediabile. Le tele
sono state aggredite con un taglierino, strappate dalla cornice e
tirate via a forza. I suoi adorati quadri. Per un attimo il dolore
provocato da quella visione sopraffà la paura e le si insinua tra le
ossa spingendola a dimenticare tutto il resto. Sono i pezzi più belli,
quelli che non ha mai voluto esporre e per i quali ha rinunciato a
qualsiasi offerta. I lavori che nessuno poteva meritare di conservare
tra le proprie mura. Sbranati, dilaniati da una furia impetuosa dalla
quale lei è stata risparmiata. Ma forse solo per il momento.
Cosa succede adesso? si domanda non appena la sua mente
trova la forza di riemergere da quel mare di dolore.
Mentre si affanna alla ricerca di una risposta, osserva incredula le
strisce di tela arricciolate e sparse qua e là come stelle filanti.
Abbassa la testa e incontra le sue caviglie doloranti, gonfie, torturate
dai nodi del nastro adesivo. Sente il sapore del sangue sul palato e
solo allora si ricorda dell’aggressione. La porta di casa che si chiude
alle sue spalle, le chiavi che tintinnano mentre cadono sul piccolo
vaso di rame accanto all’ingresso e qualcosa, o qualcuno, che le
piomba addosso. Neppure il tempo per farsi domande. Un lampo
accecante che occupa tutto il suo campo visivo e, un attimo dopo, il
dolore che la avvolge e la costringe a svenire.
Adesso succede che muori.
Non è la risposta più incoraggiante da darsi, ma i giornali non
fanno altro che riportare notizie come quella. Bande di teppisti,
organizzati alla perfezione e privi di ogni senso morale, che
assaltano ville isolate come una volta si assaltava le navi lungo le
rotte oceaniche. Storie che si ripetono sempre più spesso, sempre
più simili anche nella loro conclusione sanguinosa.
Raccoglie le forze e cerca di alzarsi ma riesce a sollevare la sedia
solo di qualche centimetro. È una specie di trono, massiccio e
voluminoso. Non appena Caterina tenta di avanzare, cercando di
vincere le resistenze di quel fardello, la poltrona le ribalta il proprio
peso sulla schiena e la fa pericolosamente barcollare, il viso
costretto verso il pavimento, il carico già insopportabile dopo solo un
passo. Attraversare la stanza e raggiungere l’uscita è fuori
discussione. Perfino rimanere in piedi è già un miracolo.
E poi la porta sarà chiusa a chiave. Dove credi di andartene?
Si siede e riprende fiato. C’è solo da aspettare e pregare che
qualcuno prima o poi apra quella porta. Forse non sarà un incontro
troppo piacevole, ma è sempre meglio che brancolare nell’ignoto
inchiodata a una sedia, la morte come unica destinazione.
Mentre si domanda cos’altro tentare, un suono dietro di lei
richiama la sua attenzione. Si volta d’istinto e il nastro reagisce come
una furia rifilandole all’altezza del collo una pugnalata che la lascia
senza fiato. Le serve un po’ di tempo per riprendersi, poi ci prova
ancora, stavolta più lentamente. Il nastro le impedisce di voltarsi
quanto vorrebbe. Allora appoggia per terra la punta dei piedi, solleva
la sedia e la fa ruotare verso destra finché il dolore alla schiena non
diventa così forte da costringerla a smettere. Deve ripetere la
manovra un paio di volte, riprendendo fiato tra un’operazione e
l’altra. Quando può finalmente fermarsi, di fronte a sé riconosce la
madre, legata a una sedia identica alla sua, un occhio contornato da
un alone viola e un rivolo di sangue ormai secco che le scende dalla
tempia fin sotto il mento.
È come subire un’altra aggressione. Cominciano a piangere
insieme per qualche istante, finché il pianto si trasforma in una
sequela di gemiti sempre più rassegnati. Il nastro è stato applicato in
modo scrupoloso, quasi punitivo. Sia le mani che le caviglie sono
fissate in modo da avere una libertà di movimento davvero limitata.
Quello sulla bocca stringe al punto da soffocare. Basterebbe avere
una crisi di pianto e congestionare appena le vie respiratorie per
rischiare di morire nel più stupido dei modi.
Calma, si impone la donna. Prima o poi verrà qualcuno a salvarci.
Devi solo restare calma.
Ma non è facile conservare la lucidità, neanche ripetendosi a
oltranza quella frase. I pensieri vorticano chiassosi, disordinati. Ha
bisogno di sapere da quanto tempo si trova in quello stato. A
giudicare dall’indolenzimento degli arti dev’essere almeno da un paio
d’ore e dunque…
Silvio!
Lo scroscio di panico che la invade è tanto forte da provocarle i
crampi alle mani. Comincia ad agitarsi sulla sedia mentre il nome di
suo figlio schiaccia ogni altro pensiero. Ormai deve essere già
rientrato da scuola. Lo immagina nella stanza accanto, legato come
lei e sua madre. Forse addirittura morto, picchiato a sangue da quei
pazzi che adesso girano per casa come i nuovi padroni. Ha solo
sedici anni. Non potrebbe neppure abbozzare una reazione di fronte
a una follia di quella portata.
Sono pensieri balordi ma inevitabili. In un primo momento
cancellano tutto il resto: l’aggressione, la prigionia, sua madre, la
distruzione dei suoi quadri. Poi vanno a poco a poco a sommarsi alle
sofferenze fisiche già patite. È come aggiungere un masso sopra un
peso già insopportabile. E il dolore si fa ancora più profondo.
Silvio…
Riprende fiato un attimo, quasi una specie di rabbiosa rincorsa
prima dell’assalto, poi ricomincia ad agitare le mani per liberarsi. Il
nastro affonda nei polsi come una lama, ma ora niente al mondo la
fermerà. Se quei delinquenti hanno fatto qualcosa al suo Silvio,
allora dovranno ammazzare anche lei. Continua a divincolarsi per un
tempo interminabile ignorando il sudore che dalla fronte le attraversa
il viso, scende lungo il collo e le infradicia la schiena. Il nastro però
non cede e anzi si arrotola su sé stesso trasformandosi in una corda
indistruttibile. Tutto quell’accanimento è frustrante. Ne ricava solo un
dolore alla testa così acuto da ottenebrarle la mente. Decide di
fermarsi un attimo e sposta lo sguardo sulla madre. Quando se ne
pente, ha già visto ciò che non deve ed è troppo tardi per tornare
indietro. La donna è sfinita. L’occhio colpito è quasi chiuso e gonfio
fino a scoppiare. L’altro è una biglia inespressiva che sembra
appartenere al viso di un estraneo. L’occhio di un volto che per metà
pare già morto.
Quanta ferocia è necessaria per colpire una donna così anziana,
legarla su una sedia e lasciarla morire in quel modo barbaro?
Quella riflessione la spaventa sul serio, assai più del dolore fisico
che la sta annientando o della devastazione che ha travolto i suoi
quadri. Se quei mostri sono riusciti a fare questo a sua madre, cosa
potrebbero fare a un sedicenne che provasse a reagire?
Un ticchettio alle sue spalle interrompe quei pensieri. Proviene
dalla maniglia della porta. Caterina si solleva rapida sulla punta dei
piedi e comincia a ruotare la sedia verso l’entrata della stanza.
L’anta si apre di qualche centimetro ma non abbastanza per
mostrare chi c’è dietro.
Chi siete? Chi siete, maledette bestie? Dov’è mio figlio?
Fruga con lo sguardo oltre quella striscia nera, ma naturalmente
non ne ricava nulla. Allora cerca di captare qualche suono. La voce
del suo Silvio, il suo pianto, basterebbe anche un grido disperato.
Qualunque cosa che possa dimostrarle che è ancora vivo. Frustrata,
lancia un urlo soffocato seguito da quello della madre dietro di lei.
La porta resta socchiusa ancora per qualche istante, poi la
maniglia si abbassa di nuovo e l’anta si chiude.
Caterina urla di rabbia fino a farsi esplodere le vene del collo. Si
dimena sulla sedia come una posseduta. Riesce a sollevare appena
le zampe, poi si lascia andare producendo uno schianto tremendo.
Vorrebbe continuare per ore, ma già al terzo tonfo è esausta. Le
ginocchia non si piegano più. Al quarto tentativo, la sedia neppure si
alza. Le gambe cedono e la costringono ad accantonare quell’idea.
In realtà qualunque progetto di ribellione sembra fuori dalla sua
portata. Ci sono a malapena le energie per sopportare quella
prigionia senza andare fuori di testa, figuriamoci per combatterla.
Prova a rilassarsi cercando una posizione non troppo scomoda che
le permetta di riordinare le idee. Appoggia la nuca sul bordo della
spalliera.
Se non altro, ha scoperto che in casa c’è qualcuno. Qualcuno che
per ora si limita a osservare.
Recupera le forze. Aspetta la loro prossima mossa. E pensa.
Pensa!
Ma l’attesa è snervante. Uno, cinque, dieci minuti che pesano
come un secolo senza che succeda nulla. L’occhio fisso sulla
maniglia, pronto a intercettare anche solo un accenno di movimento.
Le orecchie tese a captare un suono qualunque dietro il quale ci sia
una speranza.
Niente da fare. Solo il rumore del vento che ogni tanto filtra tra le
assi dell’avvolgibile.
Possibile che nessuno si faccia vivo? Possibile che nessuno dei
vicini abbia notato qualcosa di strano, un dettaglio sospetto, un
rumore allarmante?
È una domanda figlia della disperazione, ma è anche una
domanda fuori luogo. Una domanda che, in condizioni normali, non
si porrebbe mai. Li ha sempre detestati ed evitati come la peste, i
vicini. Se anche avessero visto qualcosa, nessuno interverrebbe per
lei.
Decide di voltarsi per accertarsi che la madre non stia
peggiorando. Ma quando le appoggia addosso gli occhi, si rende
conto che è a un passo dal perdere i sensi e consegnarsi alla morte.
Una donna così combattiva ridotta a una larva. Il suo respiro è
debole, il corpo è abbandonato sullo schienale della sedia. Si
domanda quanto ci vorrà perché accada anche a lei.
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