Figli delle stelle – Emily Pigozzi

SINTESI DEL LIBRO:
Sto facendo la cosa che mi riesce meglio: sto correndo.
La velocità è parte di me, la velocità sono io. Mi brucia dentro come un
fuoco, mi insegue come tutti i demoni che non capisco, quelli che conosco e
quelli che non so di avere.
Mi ingoia tutto intero, annebbiandomi la mente come fosse una polvere
anestetizzante. Mi lancia simile a un proiettile dentro il buio.
Sono corsa, pura dinamicità: un solo attimo ancora, una nuova spinta di
accelerazione e potrei alzarmi in volo. Non vedo niente, solo quel maledetto
traguardo. Maledetto perché lo odio fino a distruggermi l’anima, benedetto
perché non bramo nient’altro, lascio che fagociti ogni mio pensiero, ogni
frammento di me. Scheggia di tuono, folgore che sovrasta ogni rumore. Il
traguardo è mio, e dopo di esso potrò lasciarmi alle spalle incubi e dolore,
notti di pioggia e solitudine. Almeno per un attimo.
Trattengo il motore per un attimo, impugno il volante come fosse l’unico
ostacolo tra me e il mio destino. Un proiettile di ferro impazzito, che solo io
sono in grado di dominare.
«Cazzo, ce la faccio. Stavolta ce la faccio!» lo urlo, ma il mio è un grido
muto, sovrastato dal rombo dei motori e della folla in delirio. Solo i miei
meccanici e i componenti del mio team possono sentirmi, attraverso il
microfono. Forse mi dicono qualcosa, ma io non li ascolto. In questo istante
non so neppure dove mi trovo: è solo il traguardo che avvisto. Un
microcosmo di follia e di asfalto, perso in un qualsiasi angolo del mondo.
Lo vedo quando è già tardi, troppo tardi: un unico lampo di colore
impazzito nella mia follia grigia. Ma in realtà è il destino che non vedo, quel
destino bastardo, ancora una volta. Qualcosa che si frappone tra me e la
gloria, tra me e la vita stessa. Lo dovrei conoscere bene, invece non è così,
perché ogni volta che credi di conoscerlo lui gira la carta e ti lascia fottuto,
senza nemmeno il tempo di pensare. È l’inferno quello che mi aspetto, un
inferno di urla, dolore e lamiera, fondo e bruciante. Invece non succede.
Sì, gli finisco addosso come una carambola, come una inutile palla di
cannone, mentre le auto sembrano quasi esplodere per effetto di una bomba
misteriosa. E poi io stesso divento materia inerte. Senza un respiro, mentre
corro senza controllo fuori dalla pista, dentro il cielo plumbeo dove adesso,
solo adesso, taglia l’orizzonte un’ unica lama di luce.
Però, faccio in tempo a pensare.
Perlomeno lo vedo un’ultima volta, il sole morbido del pomeriggio.
Lo vedo e lo attraverso mentre ricado a terra e sbatto con violenza inaudita
contro il muro di protezione.
Poi, il nulla.
Scatto a sedere sul letto, con un movimento brusco. Sto ansimando, con il
cuore che vola a mille e rivoli di sudore bollente che mi scorrono sulla pelle
nuda. Grazie al cielo non ho urlato, almeno credo: la gola non mi gratta come
succede di solito quando lo faccio e soprattutto lei continua a dormire, come
una bellissima statua seminuda abbandonata al mio fianco in posizione fetale,
tra le lenzuola che si arrotolano salendo come un serpente attorno alle sue
bellissime gambe tornite. Uno spettacolo meraviglioso: questo è quanto
penserebbe qualsiasi uomo tra i tredici e i novant’anni.
E invece a me scappa quasi un sussulto di noia, anzi, peggio, di fastidio.
Per fortuna non sono stato sorpreso nella mia debolezza, lei deve avere
davvero il sonno pesante. E dorme con le labbra corrucciate, come una
bambina. La luce che filtra dalle persiane mi fa capire che è già mattino.
Motivo in più per sentirmi insofferente, all’inizio di un’altra inutile giornata
del cavolo.
«Che ore sono?» mi fa eco lei, stiracchiandosi come una bellissima gatta.
«Ora che te ne vai» mugugno facendo trapelare tutto il mio malumore,
tirandole via il lenzuolo come un ragazzino molesto.
«Ma che… su, smettila. Vieni qui» mi attira a sé, quasi possessiva, la pelle
profumata e serica che entra in contatto con la mia. Ma io non ho nessuna
voglia di scherzare, anzi, il veleno che sento dentro mi rende sgradevole,
quasi cattivo.
«Credi che l’esserti fatta scopare qualche volta ti conceda dei diritti?»
«Beh, non lo definirei qualche volta, no?»
«Piantala, Alyssa. Levati dalle scatole, dai.»
«Perché? Cosa avresti da fare?»
«Non sono affari tuoi!»
Lei sta iniziando a toccarmi, a risalire con la punta delle dita sulla mia
pelle bruciante. Le unghie smaltate di un rosa vivace si fanno strada tra gli
incavi della mia muscolatura, dall’addome tonico ai fianchi, con una maestria
decisa ed esperta, desiderosa di vincere la battaglia. Cerca il mio sesso, mi
stuzzica con le sue labbra carnose e perfette, in un sapiente gioco di
seduzione. Se resto in questo letto, tempo un paio di minuti e non sarò più
capace di resisterle.
Ma io non voglio soccombere. Non adesso. I suoi capelli profumati di fiori
mi soffocano, mi sembra di non poter più respirare. La stessa sensazione di
quel giorno.
La stessa mancanza di aria, di cielo, di vita.
Se non fossi a casa mia sarei io a levare le tende, anzi: probabilmente avrei
fatto in modo di non doverle nemmeno rivolgere la parola.
«Non sto scherzando. Prendi la tua roba e vattene. Ho da fare.»
La scosto rude, cercando di tenere ferma la voce. In nessun modo qualcun
altro deve capire ciò che provo. In nessun modo Rafael Venturi deve svelare
il vero se stesso. La minima debolezza che mostrerò permetterà loro di
avermi.
«Che stronzo che sei. Credi di poterti permettere tutto, campione?»
La sua voce è acida e ironica, soprattutto sulla parte finale della frase.
Eppure è davvero così. Alyssa è solo l’ennesima pronta a farsi trattare male
pur di avere un solo selfie al mio fianco, da corredare di hashtag cretini e che
le procurerà seduta stante qualche migliaio di followers sui social network.
Un senso di nausea mi pervade, così forte che per un attimo temo di vomitare
davanti a lei. Sarà colpa di tutto quello che ho bevuto ieri. O forse no, non
solo almeno.
Alyssa si infila in bagno, facendo ondeggiare la lunga chioma biondo oro,
così perfetta da suscitarmi un senso di noia e fastidio. Tuffo il viso nel
cuscino mentre la sento muoversi per la stanza, infilare le scarpe con il tacco
facendo rumore con intenzione, come una bambina dispettosa.
«Io vado. Ciao, alla prossima» mi grida, come nulla fosse. È incazzata, ma
è convinta che tornerò per farmi perdonare, magari con qualche gesto plateale
degno di me. Come faccio sempre.
Ma non stavolta. Stavolta è diverso. Tutto è diverso, così diverso che fa
male, un diverso tale che ha cambiato persino il colore del cielo. Ma forse ero
io ad illudermi, e questa è semplicemente la realtà. La stessa che credevo di
aver dimenticato.
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