Fa troppo freddo per morire – Christian Frascella

SINTESI DEL LIBRO:
Sono nella lavanderia a gettoni di corso Giulio, dove lavoro. Anzi, dove sto di
base. Non mi occupo di lavatrici e detersivi, sono un investigatore privato senza
ufficio. Un ufficio mi costerebbe troppo per quello che guadagno, quindi ho fatto
sapere in giro che se qualcuno ha bisogno dei miei servizi può trovarmi in questo
posto. Mohamed Sabil, il marocchino padrone del locale, mi lascia stare qui
perché ogni tanto lavoro per la sua comunità, con buoni risultati. Devo essermi
distinto almeno per l’impegno, perché nessuno dei clienti ha ancora preteso in
cambio la mia testa. Invece fuori dal quartiere c’è una lunga lista di persone che
mi vorrebbero morto, per esempio la mia ex moglie. E forse anche mia figlia,
che non vedo da otto mesi, piú o meno.
Ogni tanto Mohamed passa a svuotare la macchinetta dei soldi e a riempire
quella dei gettoni. Di solito non ci diciamo niente, ci scambiamo solo un cenno
d’intesa. Oggi però no. Oggi mi saluta e mi chiede come sto.– Bene. Tranne per questo freddo del cazzo –. È gennaio inoltrato, due giorni
fa è caduta un po’ di neve e adesso è diventata ghiaccio sui marciapiedi.
Stamattina ho visto un tizio scivolare a terra di brutto. Qualcuno lo ha soccorso;
il mondo è pieno di brave persone che la mattina soccorrono chi cade e la notte,
magari, stuprano le ragazzine: se uno comprende questo paradosso può anche
non stupirsi piú di niente – che poi è quello che intendo fare io per gli anni che
mi restano da vivere.
Mohamed s’informa: – Sei occupato in questi giorni? – La sua voce è bassa,
aspra. Quando si irrita, è meglio stargli alla larga.
Appoggio la «Gazzetta dello Sport» su una cesta per il bucato. – A leggere il
giornale. Perché?
Il suo naso affilato annusa l’aria per un attimo, è il suo tic. – Mio nipote Driss
si è messo in un casino.– Che tipo di casino?– Prestiti con albanesi per delle scommesse. Gli deve parecchi soldi –. Viene
a sedersi.
– Quanti?– Sui settemila.
Emetto un breve fischio. – Corse di cavalli?
Alza le spalle. – Non lo so con precisione. È un debito che è cresciuto
nell’ultimo periodo –. Si accende un cigarillo lungo quattro dita. È un uomo sui
cinquanta, alto e secco, la pelle chiazzata di macchie piú scure, i denti
bianchissimi. – Ma adesso quelli hanno detto basta, o paghi o t’ammazziamo –.
Il fumo gli esce dal naso, creando un curioso arabesco attorno ai capelli radi.– E io cosa t’aspetti che faccia?– Potresti andare a parlare con loro.– Con gli albanesi?
Annuisce.– Per dirgli che?– Di avere pazienza ancora un po’, intanto che lui mette insieme i soldi.
Gli albanesi che prestano a strozzo non sono gente con cui sia possibile
ragionare. Ho sentito storie poco simpatiche, in merito.– Non credo che accetterebbero, – ipotizzo. – Soprattutto chiederanno delle
garanzie. Driss ha qualcosa, che so, una macchina da vendere da cui potrebbe
ricavare in fretta dei soldi?– Non ha niente, non lavora da un anno. Prima aiutava Pavarà, l’idraulico, che
l’aveva assunto in pianta stabile. Ma si è licenziato. Stiamo facendo una colletta
per aiutarlo.– Stiamo?– Io e gli altri della comunità di Barriera.– E quanto siete riusciti a mettere insieme?– Mille –. Cava fuori dalla tasca dei calzoni le banconote trattenute da un
fermaglio. Me le passa.– Non ho detto che accetto. E poi perché non glieli porti tu, questi soldi?– Mi stanno sul cazzo –. Tira fuori dall’altra tasca un coltello a scatto, preme
il pulsante. – Capace che mi metto a tagliare la faccia a qualcuno.– Con quell’affare non combineresti niente. Quelli ti sparano appena muovi
un muscolo.– Per questo mi sono rivolto a te.– Già. Cosí ammazzano me. Non te, non tuo nipote. Me.– Eri un poliziotto, Contrera. La gente lo sa. Lo sapranno pure loro.– E con questo?– Magari ci pensano due volte prima di ucciderti.
– Magari meno.
Questo caso potrebbe rivelarsi una rogna. Ma sfiga vuole che non lavori da un
po’ e due soldi mi tornerebbero utili. D’altro canto, avere a che fare con una
banda di albanesi è una prospettiva che non mi elettrizza.
Mi alzo e vado ad aprire il mio personale frigobar, dove tengo le birre.
Mohamed mi ha concesso quell’angolo e non mi chiede niente in cambio. Devo
dire che come padrone di casa mi ha sempre lasciato parecchia libertà. E molti
suoi amici, nel corso del tempo, sono venuti da me su suo suggerimento. Perciò
stappo la Corona e torno a sedermi. A lui non la offro perché è astemio e
disprezza l’alcol. Il frigobar è davvero una grossa concessione, da parte sua.
Entrano un paio di clienti, che lo salutano. Due donne intabarrate, col velo a
coprire parte del volto, che reggono ceste piene di indumenti da lavare.
Mohamed ricambia il saluto con un cenno. Ma aspetta che io parli.
Guardo le due donne, che discutono in arabo e aprono i cestelli delle lavatrici
con dimestichezza. Non ho idea del perché non lavino la propria roba a casa
loro. Una volta o l’altra glielo chiedo. Bevo un lungo sorso.– Parlami di Driss, – concedo alla fine.– Driss Bouda. È figlio di un mio caro amico morto.– Quanti anni ha? – Ormai ho sfilato il taccuino e la penna dalla giacca e sto
prendendo appunti.– Venti. Ma non te lo ricordi, Driss?– Vagamente. Sposato? Figli?– Una fidanzata, Naima. Driss vive con sua madre, Hafida. Che non sa niente,
e niente deve sapere.– Chiaro. Oltre a giocarsi i soldi degli altri, che fa nella vita?
Mohamed guarda le due donne, che da un minuto buono hanno smesso di
conversare e ci stanno osservando. Appena incontrano i suoi occhi, si voltano e
riprendono a parlare indicando i cestelli delle lavatrici. A dirla tutta, Mohamed
ha uno sguardo terribile, di quelli che non si dimenticano.
Annusa l’aria un attimo, e torna a dedicarsi a me. – Niente, te l’ho detto. Vive
con i soldi che gli ha lasciato suo padre, terreni che aveva venduto a Rabat per
pochi spiccioli, e la pensione di reversibilità. Il padre, Hamid, era operaio alla
Magneti Marelli, ci ha lavorato vent’anni. Poi è morto.– Come?– Un infarto. Mentre giocava a bocce coi colleghi. Sei anni fa –. La voce gli si
è incrinata.
Do un’altra sorsata. La Corona mi risale dallo stomaco alla testa, è già la terza
da quando sono arrivato. La birra mi fa sembrare il mondo meno brutto, tutto
qui.– Ci posso parlare, con Driss?– No, rifiuterebbe il nostro aiuto. Vorrei che te ne occupassi senza che lui lo
venga a sapere. Gli parlerò solo se gli albanesi accettano la proroga.– D’accordo. E per il mio compenso?
Questa volta i soldi li prende dal portafogli. Tre biglietti da cento che
sembrano appena usciti dalla zecca. Non li prendo subito. – Ti bastano? Devi
solo andare da loro e accordarti.– E se mi spaccano un braccio o una gamba?
Sorride. – Ti curiamo noi.
Prendo i trecento e lui si alza. Le macchie sul suo viso sembrano essersi
decolorate.– Ti aggiorno io, – gli dico.– Bevi di meno, Contrera –. E se ne va.
Resto a fissare le due donne che fingono disinteresse e parlano fitto tra loro.
Sto per decidermi a chiedere perché non lavino a casa quei panni, ma mi squilla
il telefono e sono costretto a rispondere.
È Anna, la mia ex moglie. Non mi telefona da un bel po’, nonostante io abbia
degli obblighi di carattere economico nei confronti di nostra figlia Valentina, che
ultimamente non ho tanto onorato. Perciò sono tentato di non rispondere, ma alla
fine prevale il buonsenso. O la paura di ritorsioni legali.
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