Rinascimento privato – Maria Bellonci

SINTESI DEL LIBRO:

MISURA DI GIOVINEZZA.
Stanza degli orologi anno 1533
Il mio segreto è una memoria che agisce a volte per terribilità. Isolata,
immobile, sul punto di scattare, sto al centro di correnti vorticose che girano a
spirali in questa stanza dove i miei cento orologi sgranano battiti diversi in
diversi timbri. Se alzo il capo li vedo fiammeggiare, e ad ogni tocco di fuoco
corrisponde un'immagine. Sempre sono trascinata fuori di me dalla tempesta
di vivere. Che cosa è il tempo, e perché deve considerarsi passato? Fino a
quando viviamo esiste un solo tempo, il presente. Una forza struggente mi
prende alle viscere: costruttiva o devastatrice non mi è dato di sapere; è senza
regola, almeno apparente.
Fa sera. I candelabri rifulgono tutti accesi. Ho mandato via la mia gente, e lo
faccio spesso, ora. Distinguo bene i caratteri appuntiti della lettera aperta sul
tavolino. Una collera quieta monta dal mio cuore alla mia testa e si frantuma
nello stupore degli interrogativi che l'accolgono. Come fa costui a contare
sulla mia obbedienza, anzi sulla mia complicità? <Vi chiedo una carità non
scrivetemi, non approfittate della mia lontananza iperborea per non temermi
più.> E ancora: <E' una mia colpevole gloria pensare a quanto mi avete
fuggito.> Io scrivergli, io fuggirlo, io temerlo, io messa sotto giudizio.
Eppure non posso impedirmi, leggendo queste frasi, di percepire in me un
tremolio turbato che contrasta con l'intransigenza e quasi la vince. Lettere
dallo straniero nato in Inghilterra, queste che mi sono sempre parse prive di
ambiguità e spesso ingenuamente colme di storie splendide o delicate da non
sospettare pericolose per qualche attrattività magnetica nascosta nel
sottofondo. Ma scatta il momento e mi sospinge ad un esame vasto e rigoroso
di me stessa in relazione con le trasformazioni che definiscono l'essere umano
per quanto si possa definirlo. Suona l'orologio che inizia una misura di ore e
mi sembra un segnale. Riordino i miei tempi a volta a volta presenti nella loro
successività. Il primo tempo della mia vita è certo uno snodarsi di istintività
naturali; seppure punteggiate da molte dubbiosità le cose andavano per il loro
verso. Di allora conservo immagini disunite e un gran fiato di energia che mi
dava una sorta di diritto all'invincibilità. Più tardi venne la prova che rovesciò
del tutto la dimensione dei diritti sulla realtà e divise con un taglio netto la
mia prima giovinezza dalla seconda. Fu d'aprile, l'anno rotondo
millecinquecento: con esso ci calò addosso come ad un traguardo maledetto
l'orribile rotta dei milanesi sotto l'impeto degli eserciti di Francia di Luigi
Dodicesimo. E' l'alba agra di una primavera nebbiosa, sono a letto, la balia
Colomba mi desta all'improvviso dicendo cose troppo terrificanti per essere
vere. Scendo a precipizio, mi avvolgo in una sopravveste orlata di pelliccia e
mi lancio e qualche cosa in me si rifiuterebbe di camminare nella sala vicina
appena in tempo per vedere la testa equina mezzo scarnita del cavallo morello
del signor Giovanni Gonzaga mio cognato che appare venendo su dalla salita
a chiocciola che immette nel mio appartamento di Castello. La testa del
cavallo non nasconde il cavaliere, ma tirandosi indietro lo respinge in una
visione lontana e stralunata.
Ambedue coperti di polvere e di fango, ambedue all'estremo del resistere: e il
signor Giovanni, allentate le redini, scivola giù di fianco sorretto appena in
tempo dal suo scudiero che gli teneva dietro.
Più giovane di tutti i miei cognati, Giovanni sembra vecchissimo forse per la
gran polvere che lo fa canuto: è ubriaco di paura e di stanchezza, sopraffatto
in ogni lineamento eppure fuori di tono, iroso.
E quasi cambia di voce quando annuncia in frasi rotte le cose patite e da
patire. <E' finita per il Moro!> urla tutto roco. <E' finita per tutti noi e prima
di tutto per voi, Isabella. Lo hanno preso travestito da soldato svizzero tra i
fanti svizzeri. Quei mercenari avevano ricusato di guerreggiare, e se ne
tornavano alle loro case lui, il Moro, camminava tra loro a piedi, affidato alla
fortuna; ma uno di Losanna lo ha riconosciuto, lo ha indicato ai francesi.
Hanno preso pure Galeazzo di San Severino; li porteranno prigionieri in
Francia. Il cardinale Ascanio è fuggito con me; l'ho lasciato indietro verso
Piacenza in cerca di un rifugio dove celarsi. Tutti fuggono da Milano. Chi è
preso vivo è sgozzato, squartato. E noi? Ho pensato solo di arrivare a
Mantova per avvertirvi: avvertire voi per prima.> Il collo gli cade di lato
come spezzato e la voce si spegne in un gorgoglio ansante. Dietro di me le
mie donne si spostano e non osano venirmi vicine: si affacciano in fondo alla
sala, si allontanano per scale e scalette, spalancano porte, gridano e piangono
chiamando a raccolta l'intero castello. Dò un ordine con un gesto alla signora
Violante che è ferma sotto i Trionfi del maestro Mantegna, immobile e
annientata simile ai prigionieri di quella rappresentazione: lei lo coglie e
sparisce. Il signor Giovanni si riprende con un sussulto e avanza verso di me
con furia. <Sono corso da voi, Isabella, perché quello che ci sta per accadere
è opera vostra. Se non ci sosterremo tra noi saremo perduti. Noi non
possiamo aprire la via ai francesi con la fuga, senza curarci di quello che può
accadere al nostro popolo e alla città

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