Scuola di nudo – Walter Siti

SINTESI DEL LIBRO:
No, nessun attentato: il treno era fermo sul ponte per un semaforo
ballerino e lo scarrucolìo delle ruote, smettendo, m’aveva svegliato di
colpo. Giù lungo l’argine a sinistra, nel pulviscolo rosso l’allarme di
un’auto taceva e riprendeva, negli intervalli abbaiava un cane. La
notte ancora trattenuta sulle rive, il giorno appena accennato da
un’oppressione scarlatta: l’acqua del fiume pareva lamiera ondulata.
Sangue bruno sulla terra smossa, due merli ai rami di un diospero e
una lanterna che brillava come un rubino notati prima che il treno
ripartisse.
Altre volte è il vento a cacciarmi fuori di casa, con quattro tipi di
fischio di cui l’ultimo assomiglia al deglutire d’un gigante: tiene le
travi nel palmo e le scuote, penetra per il camino ingolfando la stufa a
kerosene e ho paura che scoppi. Preferisco fare mattina nella sala
d’aspetto della stazione. (A quell’ora la gente che si incontra
chiacchiera con meno pudore: «io ir mi’ marito lo briscolo, ’un mi
vergogno a dillo, ciò i miei figlioli che mi frega di lui, mi pianta dei
casini perché adopero lo stick per labbra ar posto dir rossetto, ma
dopo l’epatite ’un cià forza, ni do un frontino e lo butto a ruzzolare
sur sofà».) Gli infissi della stazione sono color crema, sopra la chiesa
della Spina un girotondo di balenotteri arancione.
D’estate invece alle sei il sole è già alto, i binari verso Firenze sono
lucidi di sudore, con meli azzurri sul greto e uomini-sirena in mezzo
al fiume. Quando incrocio un treno che va nella direzione opposta
posso non interrompere la visione del paesaggio: basta imprimere
sulla retina il vuoto anziché il pieno, così che l’altro convoglio appaia
tagliato all’altezza dei finestrini; vedo attraverso tonnellate di materia
interposta, due operai che riparano la linea, con due minuscoli slip,
uno rosso l’altro giallo. (Sceso a Montelupo, risalita la strada fino a
una ceramica di cui avevo segnato il nome – poi col cuore in gola e di
buon passo rifatti gli ultimi sette-ottocento metri, ne valeva la pena.)
Come se dovessi presentare le credenziali, il tòpos dell’alba. Al
compimento del trentacinquesimo anno (una settimana fa, 20 maggio
1985) guardo il sentiero universitario che mi sta alle spalle e sento
l’esigenza di fare un bilancio. Quando citano i due libretti einaudiani
che ho scritto è come se mi costringessero a incontrarmi con dei
révenants, eppure sono passati solo tre anni dall’uscita dell’ultimo:
rileggerli sarebbe superiore alle mie forze. Se mi chiedono un saggio o
una recensione, appena l’ho consegnata non voglio più che nessuno
me ne parli, non voglio né bozze né estratti né niente; nemmeno
sapere dove esce, voglio solo essere lasciato in pace. Scrivo due
pagine esatte al giorno e quando ho finito è come se avessi finito i
compiti: insensibilmente un disegno prende forma e non importa se
quel che dico è vero. Ogni volta che mi viene un’idea, per impedire
che possa affondare o diramarsi senza limiti mi alzo e accendo la
televisione: due idee brillanti di seguito minaccerebbero di
congiungersi e portarmi dove non voglio – su un terreno nel quale
non sarei più padrone di me; mi rifiuto e la pigrizia assecondata si fa
arrogante, non concede allo sforzo che attimi brevi. Mangiare salame
ungherese, sottaceti e baccalà fritto è il sistema più svelto per
appesantire lo stomaco e alleggerire il cervello. Con i visitors che mi
abitano devo giocare d’astuzia. Soprattutto non voglio essere
identificato con quello che scrivo, essere obbligato a difenderlo o,
peggio, a crederci. Consegno il saggio al capo, lui mi dice «è
eccellente» e io già posso essere un altro, questo solo importa.
Ho fatto la mia carriera come un cane ammaestrato, vibrando di
curiosità all’inseguimento di odori fragranti e proibiti ma pronto
subito a porgere la zampa della buona educazione critica, la
competenza metrica e stilistica, la rigorosa riflessione metodologica,
la simmetria strutturale
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