È andata così – Gérard Depardieu

SINTESI DEL LIBRO:
Mia nonna in pratica abitava all’aeroporto, era la signora dei
gabinetti di Orly, dove passavo le vacanze quando ero piccolo.
Quanto mi piaceva stare lì dentro. “Il volo in partenza per Rio de
Janeiro…” Cavolo, se ne va in Brasile quella gente! E correvo a
vedere. “Il volo in arrivo da…” Mi passavano davanti tutte le città del
mondo: Saigon, Addis Abeba, Buenos Aires… E io me ne stavo nei
gabinetti. Che nonna puliva: lavorava per una ditta che si chiamava
L’Alsacienne. Nonna si faceva la barba, e ne ero affascinato. Aveva
un Gilette bilama con cui si rasava.
“Nonna, pungi ancora!” le dicevo quando la baciavo.
“Me la rifarò domani, tranquillo.”
Era la madre di mio padre. Ne ho fatti di viaggi da quando, nei
gabinetti di Orly, sentivo destinazioni che mi facevano sognare.
Allora pensavo: “Ci andrò anch’io, laggiù! Un giorno ci andrò anch’io
e poi ritornerò, un giorno…!” La mia vita era così. Più tardi, quando
facevo l’apprendista in tipografia, col rumore delle macchine in
testa… Il rumore mi trasportava dentro una specie di musica, di
turbine, e mi dicevo: “Cavolo, quello che mi piacerebbe è una casa
profumata di pino, con tanti aghi di pino che ti si ficcano nei piedi
quando ci cammini sopra. Ci porterei tutta la mia famiglia… E io me
ne andrei alla scoperta di tante altre cose…” Sognavo, e nella mia
testa partivo tutto solo. Sempre e comunque. Fino al giorno in cui me
ne sono andato davvero, ma senza violenza. Non sono partito
perché mio padre, Dédé, era insopportabile, o perché mia madre,
Lilette, lo era altrettanto; no, me ne sono andato perché ero libero.
Ero stato amato per essere libero e per andare dove volevo. I miei
genitori non mi hanno mai giudicato né trattenuto, niente di niente.
Sono sempre stato libero.
I FERRI DA MAGLIA
Sono sopravvissuto a tutte le violenze che la mia povera mamma
si è inflitta con i suoi ferri da maglia, con i suoi decotti, con i suoi
pasticci. Il terzo bambino che proprio non voleva ero io, Gérard.
Sono sopravvissuto. Mi ha raccontato tutto, Lilette. “E pensare che
per poco a te non ti ammazzavamo!” mi diceva sfregandomi la testa.
Con amore, eh. Con amore. “E pensare che per poco non ti
ammazzavamo!” Anche se non sono stato desiderato, ne ho ricevute
di carezze. Una volta arrivato qui, non potevano più ammazzarmi, e
mi hanno amato. Ma amato a loro modo, senza nascondere né i
dispiaceri né le paure né la vergogna.
Arrivate le contrazioni, dopo essere venuto al mondo, i rancori se
n’erano andati. Si compiva il destino, ecco tutto, tanto il suo quanto il
mio.
E così sulla macelleria dei ferri da maglia si rideva e si
scherzava. “Olallà,” ripeteva, “e pensare che questo qui non doveva
neanche nascere! Ma è così carino, meno male che è arrivato.”
Sentivo tutti dire questo quando avevo due o tre anni.
A CASA NOSTRA
Dédé cucinava il polmone, le frattaglie, tutta quella roba che si dà
ai cani o ai poveri. Il polmone era spugnoso, ma una volta cotto
diventava secco. Seguiva una cottura tipo “civet”, stufandolo nel vino
rosso e nel sangue dell’animale, ed emanava un odore straordinario.
Lo sentivo dalla strada, e correvo in cucina: “Cos’è? Cos’è?” gli
chiedevo. Non mi rispondeva. Allora insistevo. “Sembra buono,
posso assaggiare?” E lui grugniva: “Io lavoro e tu mangi.” E poi,
dopo un attimo: “Tieni! Mangia, mangia… Dov’è che è andata tua
madre?”
Casa nostra era davanti alla scuola, a Châteauroux, nel quartiere
dell’Omelon. Una catapecchia che puzzava di povertà. Perché da
noi non ci si lavava spesso, lo facevamo una volta la settimana. E
cavolo se puzzavamo! Dédé, che spesso tornava a casa ubriaco, a
volte cadeva dritto disteso davanti alla scuola.
Sono nato lì, dietro i muri della rue du Maréchal-Joffre, nel
quartiere dell’Omelon, a Châteauroux. Vivevamo in due stanzette,
stavamo gli uni sopra gli altri, e per fare quello che volevo era molto
meglio stare fuori. Un’infanzia straordinaria.
Non mangiavo mai con i miei genitori. E tantomeno con i miei
fratelli e sorelle. Mia madre non ci riuniva a tavola. Noi, i piccoli, non
ci salutavamo mai – a casa nostra nessuno diceva “buongiorno” a
nessuno. A casa nostra, si faceva così. La vita era là, imparavi
guardandola; mai una parola. C’era il modello di nostra madre,
sempre incinta, che si toccava la pancia. E c’era il modello di nostro
padre che tornava ubriaco fradicio e vomitava nella bacinella verde
se non lo aveva già fatto per strada. E vedevi il vomito. Altre volte
sentivamo botte, grida, capelli strappati… e io che correvo su per le
scale a difendere Lilette.
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