Sette giorni – Cristina Bruni

SINTESI DEL LIBRO:
Reginald Weston piegò un ginocchio a terra e chiuse gli occhi.
Istintivamente, allungò la mano destra e sfiorò con delicatezza l’erba del tee
della buca numero uno, in un ossequioso segno di rispetto.
L’aria pungente di quella mattina di giugno, al Blue Course del Virginia
Beach Resort, odorava di rugiada ed erba, unita a un insolito mix di
adrenalina e promesse.
In breve, odorava di golf.
Il giovane alzò le palpebre e tese le labbra in un sorriso. Aveva solo
ventidue anni ed era poco più di un rookie. Era entrato a far parte del circuito
dei professionisti, il famoso PGA, soltanto l’anno prima, eppure era
consapevole che il fremito che scuoteva il suo corpo ogni volta che
impugnava la mazza non era molto diverso da quello provato dai giocatori
più “navigati”.
«Un gran bel percorso, non è vero?»
La voce alle sue spalle interruppe quel momento di intimità tra Reginald
e il suo personale mondo magico, costringendolo ad aprire gli occhi e
voltarsi.
«Già, sarà un privilegio giocare qui!» rispose sorridendo a Carlos
Marquez, suo caddie sin dai tempi del circuito amatoriale.
Carlos era un amico di famiglia e aveva preso Reginald sotto la propria
ala fin dalle prime volte in cui aveva stretto tra le mani un ferro da golf. Negli
anni, i due avevano sviluppato un rapporto più simile a quello tra uno zio e
un nipote che di semplice giocatore-caddie. In breve, Carlos Marquez
trentacinque anni, fisico robusto e carnagione olivastra tipica di chi ha sangue
messicano che scorre nelle vene – era colui che si prendeva cura delle ferite
di Reginald, ma anche colui che gli tirava le orecchie quando combinava
cazzate sul campo.
«Se non superiamo il taglio al secondo turno, andremo a spassarcela in
spiaggia, prima di tornarcene a casa!» dichiarò allegro Carlos, schioccando le
dita e avvicinandosi al suo protetto.
«Certo che supereremo il taglio! E avremo anche un buon piazzamento,
domenica!» borbottò Reginald, aggrottando la fronte.
«Così mi piace il mio ragazzo!» tuonò Carlos con il suo vocione,
spintonando il giovane con una spallata amichevole. «Andiamo, ho prenotato
il putting green dalle 10 alle 11,» aggiunse, con fare autorevole.
Reginald annuì, prima di lanciare un ultimo sguardo gravido d’amore e
rispetto verso il percorso del torneo fresco fresco di ristrutturazione: sì,
sarebbe stata una settimana indimenticabile.
***
Il torneo di golf del Virginia Beach Resort era al suo debutto. In passato
era già stato teatro di un tournament della PGA, ma poi il percorso a diciotto
buche era stato chiuso e, per diversi anni, era rimasto in attesa di essere
riportato alle vecchie glorie. E ora il momento era finalmente arrivato. I
fairway erano stati allungati e i green sistemati con la classica forma a guscio
di tartaruga tipica dei campi americani. Per l’occasione, non solo avrebbero
preso parte al torneo alcuni dei più noti professionisti americani, ma anche
diversi nomi famosi dello European Tour.
Reginald era eccitato dalla prospettiva di poter giocare contro alcuni dei
suoi idoli. Aveva finalmente ottenuto il pass per il PGA Tour solo alla fine
dell’anno precedente, dopo aver terminato la qualifying school, e, ogni volta
che partecipava a un torneo, si sentiva come un bambino nel paese dei
balocchi.
Pensava a questo mentre, sul putting green, provava gli approcci. Si
respirava un’atmosfera magica al Virginia Beach Resort e, sebbene non
avesse ancora vinto un titolo che fosse uno (o, al contrario, proprio per
quello), Reginald non stava più nella pelle per la voglia di tirare il suo primo
colpo in quel torneo.
Il cellulare vibrò nella tasca posteriore dei pantaloni chiari.
BIP
Reginald sbuffò e lo tirò fuori. Era mamma Emily, perennemente
ansiosa.
Tutto bene? Sei arrivato? Ti piace il posto?
«Qualche altra domanda, mamma?» sogghignò il giovane, le dita che
scorrevano rapide sulla tastiera.
Sì a tutto, ci sentiamo domani dopo il primo giro!
Fece per mettere via il cellulare, ma cambiò idea. Scorse tra le
applicazioni e avviò Twitter. Ormai era usanza tra i golfisti professionisti
avere un proprio account per aggiornare costantemente i fan in merito a ogni
novità, all’andamento dei tornei, eccetera.
Reginald non era un grande estimatore dei social network, ma si era ben
presto adeguato al trend. Aveva aperto un account, anche se non aveva un
gran numero di follower. Non era ancora così famoso, tuttavia, ci teneva a
inviare qualche tweet ai suoi fan ogni tanto: erano tutti molto gentili e
premurosi nei suoi confronti, augurandogli in bocca al lupo prima di ogni
torneo.
Soprattutto le ragazze.
Solo che le ragazze non erano esattamente il suo settore di competenza.
Anzi, non lo erano per niente.
A lui piacevano i ragazzi e lo dichiarava con orgoglio, indossando
regolarmente una spilletta arcobaleno. Quell’ostentare la sua omosessualità
gli aveva fatto guadagnare a volte affettuose pacche sulle spalle, altre anatemi
difficili da digerire. Ciò succedeva soprattutto quando si allontanava dai
campi da golf per immergersi nella vita accademica che aveva terminato da
poco.
Reginald aveva capito di essere gay quand’era ancora alla scuola
superiore. Il primo anno aveva provato a far parte della squadra locale di
football, prima di decidere che quello era lontano anni luce dal suo ideale di
sport. Salvava poco o nulla, a parte la possibilità di fare tutti assieme la
doccia dopo ogni allenamento. Ci aveva provato semplicemente per sentirsi
parte di qualcosa, per scacciare il suo eterno sentirsi diverso, fuori posto.
Non si trattava solo di “diverso” in senso sessuale, ma universale. A lui
interessavano cose che ai ragazzi della sua età normalmente non piacevano:
leggere un libro il venerdì sera invece di uscire a fare baldoria, bere una
spremuta d’arancia al posto di una birra, le case sull’albero invece delle
Mustang, il golf al posto del baseball o del football…
Un giorno, mentre faceva la doccia assieme ai suoi compagni di
squadra, dopo un allenamento, il suo sguardo era scivolato su Aaron, il
quarterback del team, intento a spalmare il doccia-gel sul corpo nudo, accanto
a lui. Ed era rimasto lì, il suo sguardo, a deliziarsi e a sorprendersi di quella
vista fino a quando Aaron non aveva chiuso il rubinetto e si era allontanato.
Si era sentito confuso, Reginald. Confuso, ma affascinato al tempo
stesso. Non gli ci era voluto molto per capire che spiare le ragazze del gruppo
cheer-leader sotto la doccia, nello spogliatoio accanto, era meno interessante
di spiare i compagni di squadra, dopo ogni allenamento e ogni partita.
Non aveva un fidanzato al momento. Negli ultimi anni delle superiori
aveva avuto un paio di storie, ma erano giunte presto al termine e senza
troppo dolore. In verità, non aveva nemmeno molti amici. La maggior parte
dei suoi ex compagni di scuola proprio non concepiva il fatto d’avere una
passione così grande da sacrificare buona parte di tutto il resto. Una passione
che risaliva ai tempi in cui, da bambino, accompagnava nei weekend i
genitori, tutt’altro che benestanti, a tirare qualche palla presso il circolo
comunale di Chicago.
Durante il tour si era fatto non più d’un paio di amici. O forse era più
corretto dire conoscenze: un ragazzo di origine asiatica, che tuttavia non era il
massimo della simpatia poiché, la stagione precedente, aveva vinto il premio
come rookie dell’anno e non mancava mai di rammentarlo a tutti, e un altro
giovane americano di Seattle, Moses. Lui sì che era simpatico e di
compagnia, ma sfortunatamente, il più delle volte, non partecipava agli stessi
tornei a cui si iscriveva Reginald.
Insomma, in definitiva il suo migliore amico era il suo caddie e per
quanto riguardava il grande amore... beh, doveva ancora incontrarlo.
«Ehi, Reggie! Il tempo è scaduto!»
La voce di Carlos lo riscosse nuovamente dai suoi pensieri. Diede una
rapida occhiata al vecchio orologio da polso: era davvero ora di smettere di
allenarsi, per quel giorno. Osservando il quadrante graffiato e il cinturino
logoro, si domandò se sarebbe mai diventato famoso abbastanza da fare da
testimonial a qualche marca di costosi orologi. Ce la vedeva bene, dopotutto,
la sua faccia accanto alla foto di un Rolex o di un Audemars Piguet.
«Che ne dici di un giretto sulla Boardwalk? Potremmo farci un goccio
da qualche parte!»
Il ragazzo annuì e si tolse il berretto, rivelando la zazzera castana
lievemente più chiara sulle punte, ora inumidita dal sudore: tradotto nel loro
canone personale, un “goccio” significava una birra gelata per Carlos e
un’aranciata per lui.
«Sai, il tuo caddie-manager-dottore-amico-zio-eccetera qui presente
consiglia di dimenticarsi per un po’ del torneo e andare a divertirsi!»
continuò l’uomo, mettendo fraternamente un braccio attorno alle spalle del
giovane.
«Però stiamo via poco: ho bisogno di concentrazione,» borbottò
Reginald, divincolandosi da quell’abbraccio e iniziando a mettere via i ferri.
Carlos incrociò le braccia al petto e gli rivolse uno sguardo torvo. «Devi
proprio trovarti un fidanzato e scopare di più!»
Le labbra del suo protetto s’atteggiarono a un sorriso triste. «Magari lo
trovassi, Carl. Magari...»
Quaranta minuti dopo, Carlos parcheggiava la Mercury presa a noleggio
in una delle piazzole che s’affacciavano sull’oceano. Fecero una breve
passeggiata sulla Boardwalk, circondati da fanciulle in bikini che parevano
uscite dall’ultimo numero di Playboy e ragazzini a bordo di coloratissimi
skateboard.
Una giovane donna, addirittura, fermò Reginald e gli domandò se non
fosse per caso quel l’attore canadese, Shawn Ashmore, che aveva interpretato
uno degli X-Men, perché, se così fosse, voleva disperatamente il suo
autografo. Imbarazzato, il ragazzo rispose educatamente che no, lui non era
un attore e a malapena sapeva di che cosa stesse parlando, ma che lo
considerava comunque un complimento. La ragazza se ne andò via senza
nemmeno salutare o scusarsi per averlo importunato.
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