Pulp Roma – Tommaso Pincio

SINTESI DEL LIBRO:
Poiché non sono previsti rimborsi, è giusto avvertire il lettore prima che
proceda all’acquisto. A dispetto del titolo (di una sconcezza allettante, lo
riconosco), questo è un piccolo libro. Non un libro piccolo, attenzione,
quantunque sia pure minuto. È piccolo quanto a contenuti e ambizioni. Un
libercolo, insomma, o anche un capriccio, o meglio uno svago. Vi si
illustrano umori e fissazioni che accompagnarono la stesura di un mio
romanzo, qualche anno fa. Non che consideri quell’opera così notevole da
corredarla di un’appendice. Tutt’altro. A premermi è semplicemente l’idea
da cui il romanzo scaturì; il come sia nata, il come si sia sviluppata. E mi
preme per un motivo soltanto: perché parla del mio legame col luogo in
cui vivo. Grande sarebbe la tentazione di affermare che si tratta di una
dichiarazione d’amore sui generis, non fosse che, così facendo, dovrei
aggiungere all’amore anche l’altra faccia dei miei sentimenti; una faccia
che non ha i tratti ovvi dell’odio bensì quelli quasi anonimi e però
irrinunciabili dell’abitudine. Chiamiamola allora una dichiarazione
d’amore e abitudine, e passiamo al dunque.
L’idea in questione (scrivere un romanzo romano) è stata con me per
lungo tempo. Si potrebbe anzi dire che m’abbia accompagnato sin
dall’inizio. Eppure per molti anni mi sono trattenuto. Non mi risolvevo,
rimandavo, preferivo altre ambientazioni. Il ritardo non era senza ragioni.
Roma è un luogo refrattario, impermeabile alla scrittura, quando non
subdolamente ostile. Fëdor Dostoevskij (un grandissimo dal quale non si
può mai prescindere) ebbe a trovarsi nella capitale giusto un secolo prima
che io nascessi, nel 1863. Gli era venuta un’idea per un racconto e,
giudicandola piuttosto interessante, l’aveva annotata per grandi linee su
pezzi di carta, così da potercisi dedicare non appena si fosse trovato nelle
giuste condizioni. «Qui non è possibile farlo» confidò per lettera a un
amico. «Fa caldo, e in secondo luogo, mi trovo in un posto come Roma per
una settimana: ed è forse possibile scrivere nel corso di questa settimana, a
Roma?»
Non dubito che Dostoevskij fosse molto preso e anche sfiancato
dall’esplorazione della città. È verosimile che fosse troppo stanco, la sera,
troppo soverchiato da quanto aveva visto e provato nel corso della
giornata, per richiudersi in se stesso e immergersi nel mondo del racconto
che voleva scrivere. E lo si può capire. La meraviglia di Roma è
opprimente, eccessiva, persino disumana. Roma è un luogo
sproporzionato. Il suo monumento più rappresentativo, il Colosseo, pare
concepito al solo scopo di rendere minuscoli e irrisori gli uomini. Gli è
gemella in questo la basilica di San Pietro, la cui sterminata ellisse del
colonnato, sebbene spesso paragonata a un abbraccio di materna
ospitalità, si apre alla maniera di fauci immani; una balena di bianco
travertino ansiosa di inghiottire quanto più possibile.
Dostoevskij accusava inoltre il tanto camminare. Altra faccenda
verissima. A Roma, le distanze erano e restano spropositate, insensate.
Spostarsi da un quartiere a un altro significa spesso imbarcarsi in un
viaggio di durata imprevedibile, sicché anche il tempo finisce per dilatarsi
come lo spazio, assumendo dimensioni scoraggianti che inducono
all’immobilità, all’indolenza paciosa e filosofica dei gatti, ai quali i quiriti
vengono difatti assimilati. È pertanto un errore confondere la proverbiale
eternità di Roma con una forma d’immortalità. Roma non è affatto
immortale. È stata anzi (e in più di un frangente) una città morta o che si
credeva viva, e questo già prima che l’Impero cadesse. Vero è che ha
sempre trovato la strada per una resurrezione di qualche tipo, per
riacquistare parte del perduto splendore. Ciò non significa tuttavia che sia
immortale. Al massimo, potremmo azzardare che ha più di una vita,
magari sette quanti sono i suoi colli, e sette quante ne hanno i gatti che la
popolano. Per giunta, molti dei suoi rinnovati fasti, a cominciare dalla
Dolce Vita (su cui tornerò in seguito), vengono spesso ingigantiti e
trovano scarsi riscontri con la realtà delle cose.
Roma è dunque eterna non perché sia superiore ai guasti del tempo; lo
è perché, come una donna di esagerata e soffocante bellezza, reclama ogni
attenzione per sé. Non tollera che ci si distragga da lei; ci pretende
comunque ai suoi piedi, in rassegnata e perpetua ammirazione, sicché il
tempo perde di senso pur continuando a marciare, nascosto negli orologi,
come ammonisce un sonetto del Belli.
Procedendo nella rassegna degli abbagli, non va poi dimenticato che
Roma è una città di pietra e di pietre. Può sembrare morbida e accogliente
come un corpo caldo e disteso su un letto, carne soffice come le sue nubi
più tipiche, somigliantissime a volute di zucchero filato. E in effetti può
anche esserlo, morbida e soffice. E pure accogliente, può essere, ma è una
mollezza infida, da sabbie mobili. La sua è la cedevolezza ingannevole
della trappola, delle paludi che per secoli hanno fatto da grande e desolato
circondario col loro carico infestante e letale, al punto che
nell’immaginario dei viaggiatori il pericolo di contrarre la malaria fu a
lungo il suo marchio sinistro.
Ancora nel 1883 il Baedeker, celeberrima bibbia del turista nordico,
riportava: «In estate, quando impera l’aria cattiva carica di febbre, ogni
abitante che possa permetterselo si adopera per lasciare la città».
L’abitudine della «estatura», come veniva chiamata in Toscana questa
migrazione cautelativa, era diffusa tra le classi più agiate già nel XII secolo;
il papato praticò l’espediente per molto tempo a partire dal 1116, e
quando Roma divenne capitale la situazione era più o meno immutata e il
trattenersi all’aperto nelle serate estive seguitava a essere giudicato un
atto di imprudenza estrema.
Malgrado già nel Settecento il medico Giovanni Maria Lancisi avesse
intuito un legame tra le zanzare e il propagarsi delle febbri intermittenti,
le cause divennero chiare soltanto nell’ultimo decennio del secolo
successivo. Nathaniel Hawthorne, che a Roma ambientò un romanzo (Il
fauno di marmo), poteva dunque appuntare nel suo diario che l’atmosfera
della Città Eterna, «patria della rovina», è funestata da «una qualità
maligna», soprattutto nei mesi estivi, quando «la Febbre cammina a
braccetto con voi, e la Morte vi aspetta in fondo alla fosca veduta».
Forniva quale spiegazione il fatto che l’aria, essendo stata respirata
innumerevoli volte nel corso dei millenni, era ormai mefitica. A questo
riguardo, confondendo la qualità dell’aria coi ruderi, Hawthorne
considerava inoltre: «Qui sembra che l’intero Passato, stanco e desolato, si
addossi sulle spalle del Presente. Se dovessi provare un qualche
abbattimento in questo paese... se dovessi subire qui una sventura
terribile... penso che sarebbe impossibile per me reagire con influenze
tanto avverse».
Un pensiero non dissimile, seppure più raffinatamente articolato, lo
espresse Henry James nella biografia di William Wetmore Story, artista
americano trapiantato a Roma che ospitò lo scrittore per qualche tempo.
A vedere di James, l’aria dorata, scintillante, satura di colori deliziosi, ma
soprattutto languida, può rivelarsi «un tormento e un’importunità»
perché intorpidisce l’animo e distrugge l’artista. Può allora capitare che
una carriera potenzialmente brillante (e William Wetmore Story non fu
che dilettante di modesto talento) si riduca a «un bel sacrificio» sull’altare
di «un nobile errore». Il torpore, questo era per James il tratto distintivo
di Roma. Un torpore che può condurre soltanto a una «rilassata
accettazione» del presente, di ciò che c’è e proviene dai sensi e dunque
dalla malinconia.
A questa visione di Roma quale luogo di morte del corpo e dello spirito
James dedicò più di un racconto. Molto noto quello di una giovanissima
americana piena di vita e desiderosa di esperienze o forse soltanto di
giocare all’amore, di flirtare. Daisy, così si chiama la fanciulla, è
corteggiata da un connazionale, Frederick Winterbourne, ma a questi ella
sembra preferire le attenzioni di uno spiantato locale, il signor Giovanelli,
il quale la condurrà di notte al Colosseo fregandosene delle sue insidie.
Winterbourne (un nome scelto senza dubbio con intenzione: un
corroborante ruscello invernale contrapposto ai perniciosi languori
dell’estate romana) cercherà di metterla in guardia, ma invano. «Se le
soste notturne nel Colosseo sono raccomandate dai poeti» scrive James
«molto sconsigliate sono invece dai dottori. Vi era certamente molta
atmosfera storica, ma l’atmosfera storica, dal punto di vista freddamente
scientifico, rappresentava un pericoloso miasma.» Com’è prevedibile
Daisy non presta ascolto. Sostiene che le «pillole meravigliose» di
Giovanelli la proteggeranno e in ogni caso nulla le importa se prenderà la
febbre romana; ha visto il Colosseo al chiaro di luna, il che l’ha mandata in
estasi. Ancora più prevedibile è che Daisy pagherà a carissimo prezzo la
sua incoscienza.
Dal punto di vista del lettore americano (e forse anche dell’autore), il
racconto trova una sua morale nella rivelazione finale. Un messaggio
lasciato da Daisy in punto di morte rivela a Winterbourne quanto poco
egli avesse compreso i reali sentimenti della ragazza. Il cuore di lei era
tutto per lui, e non per il bell’italiano che le aveva ronzato attorno
soltanto finché non si era ammalata.
Considerato da una prospettiva romana (o forse soltanto dalla mia
prospettiva), motivo di riflessione è invece proprio il comportamento
squallido se non deprecabile di Giovanelli. Al funerale, esibendo un lutto
di circostanza, costui avvicina Winterbourne per confermargli che Daisy
era la «più innocente» delle ragazze, oltre che la più bella e amabile.
Indispettito da questa tardiva confessione, il giovane americano non può
trattenersi dal domandare: «Perché diavolo l’ha portata in quel posto di
morte?». La risposta che segue è sconcertante. «Per me non avevo paura; e
lei... lei faceva ciò che voleva» balbetta Giovanelli, per poi riconoscere con
assurdo candore: «Se lei fosse vissuta, non avrei ottenuto nulla. Non mi
avrebbe mai sposato».
Come dobbiamo intendere queste parole? Qualora significassero nulla
più dell’impossibilità di un vero amore non vi sarebbe nulla di disdicevole.
Ma chi ce lo garantisce? Non certo lo scrittore che, com’è ovvio, nemmeno
lontanamente accenna a possibilità recondite, a cominciare dalla più
sinistra, ossia che Giovanelli abbia accompagnato Daisy al Colosseo,
notorio nido di malaria, proprio perché consapevole che mai avrebbe
potuto farla sua. Non voglio con ciò spingermi al punto di ipotizzare un
quasi omicidio, una morte più o meno favoreggiata. Penso piuttosto a una
forma di premeditata ignavia, una mollezza morale dettata
dall’indifferenza, da un eccesso di saggezza istintiva. Una volta compreso
che Daisy è al di là della sua portata, Giovanelli non ha più ragione per
interferire e lascia dunque la ragazza al suo destino, la osserva andare
incontro alla morte, contentandosi dello spettacolo. Non c’è alcuno spirito
di vendetta in lui, nessuna voglia di rivalsa. La tragica fine di una bella
ragazza non lo diverte né lo consola. Nel suo restare a guardare senza
muovere un dito c’è la «rilassata accettazione» di chi sa che certe cose
accadono comunque perché sono sempre accadute e sempre accadranno.
Soltanto nel caso in cui queste cose rientrino nella ristretta sfera di un
personale interesse può avere un senso tentare di opporvisi, altrimenti
non è che fatica sprecata, e in base al quadro che s’è fatto della situazione,
è così che Giovanelli considera Daisy: fatica sprecata, tant’è che quando lei
si ammalerà, lui non le farà mai visita, sparirà dalla circolazione per
rispuntare soltanto al funerale.
Quanto sia fondata questa mia interpretazione del personaggio non
saprei dire. Henry James non concede lumi al riguardo, essendo
ovviamente più interessato a sondare i sensi di colpa del suo
connazionale. Mi piace tuttavia vedere in Giovanelli alcuni tratti distintivi
della romanità. Se per il viaggiatore il miasma che esala dalle rovine può
rivelarsi letale, conducendo a un infiacchimento dello spirito o a morte, il
romano corre costantemente il rischio di diventare vittima degli anticorpi
che ha sviluppato per sopravvivere in un luogo al contempo troppo
languido e troppo indifferente a tutto. Corre cioè il rischio di essere
troppo molle, troppo privo di nerbo morale, e troppo cinico e dunque
greve, pesante e immobile come le pietre da cui è circondato, sebbene il
suo cuore non sia affatto di pietra.
S’intende che i romani hanno un’altra e più alta considerazione di sé.
Poco ma sicuro: nessuno è incline a riconoscere i propri difetti con
obiettiva allegrezza. Nondimeno il popolo romano non può essere ridotto
alla molle indifferenza di Giovanelli. Una forma di filosofica accidia fa
certo parte della nostra anima, ma in maniera strisciante, latente; come
un anticorpo, emerge alla piena luce soltanto in determinati e speciali
frangenti. Nella normalità il romano si mostra indolente, apatico, talvolta
un poco tronfio e spaccone, ma sotto la maschera di cinismo nasconde una
persona tutto sommato di buon cuore, ospitale, tollerante, generosa
persino.
Roma è città cinematografica, e i due suoi attori più celebri ben
rappresentano il doppio volto di chi la abita. C’è la faccia esuberante,
furbesca, arruffona, quando non cialtrona, di Alberto Sordi e c’è poi quella
malinconica, contemplativa, pacioccona, comunque più elegante e
presentabile, di Marcello Mastroianni. Le due convivono, seppure in
maniera speciale. Solitamente la prima appartiene al prossimo, poiché
restituisce il riflesso di un romano medio e mediocre e, diciamo, pure da
macchietta; un romano nel quale affiguriamo vizi che ci piace stimare
diffusissimi in tutti fuorché in noi. Nell’altra riconosciamo invece noi
stessi. Per esser precisi, è la faccia in cui più siamo disposti a riconoscerci,
ma che davvero ci rappresenti è tutto da dimostrare. Tanto più che
Mastroianni era romano soltanto d’adozione. Sebbene approdato nella
capitale in giovanissima età, era infatti originario di Fontana Liri,
minuscolo borgo della Ciociaria. I romani avevano (e forse hanno ancora)
considerazione scarsissima per gli abitanti di questi paesaggi collinosi. Li
deridevano facendoli oggetto di battute, attribuendo loro una parte
analoga a quella dei carabinieri in molte barzellette, ossia la parte degli
idioti, dei villici incolti. D’ingiustizia si tratta, perché visitando quei
luoghi, peraltro non meno apprezzabili di certe campagne toscane benché
non altrettanto magnificati, ci si renderebbe conto che i suoi abitanti, pur
parlando una lingua infelice, una sorta di romanesco rustico e suburbano
vagamente sporcato o da abruzzese o da napoletano a seconda delle zone,
sono di natura per nulla disprezzabile, comunque pensosa e più in
confidenza con la poesia (l’anima delle cose ossia) di quanto sappia mai
esserlo il romano medio. Il che vale ancora oggi, nonostante i gravi guasti
arrecati da anni e anni di televisori, telefonia mobile e centri commerciali.
Emerge qui un ulteriore aspetto, anzi il principale fra tutti, l’aspetto
massimo. Non si dà romano che non si premuri di frapporre i dovuti
«distinguo» tra sé e la genia annacquata dei suoi concittadini,
immancabilmente bollati come barbari, forestieri, pellegrini. Un tempo si
adoperava spessissimo la definizione «burino» o, nella più benevola delle
ipotesi, romano per modo di dire. Non c’è romano che non si ritenga
(spesso e volentieri a sproposito) un vero quirite, il rappresentante quasi
unico di una nobile razza ormai prossima all’estinzione. S’intende che una
simile pretesa è una sciocchezza assoluta, giacché praticamente da
sempre, ovvero da quando si è intitolata «caput mundi», Roma è un porto
di mare, città attraversata e abitata da barbari, forestieri, pellegrini e
naturalmente da burini, ovvero campagnoli. Tale è il calderone che il vero
quirite è proprio lo straniero, il romano d’adozione. Per giunta, sono
immancabilmente costoro, i romani d’adozione, che portano nuovi lustri
alla città, restituendole vita, mentre la grandezza dei presunti veri romani
si manifesta perlopiù in due discipline, nell’arte della chiacchiera, del
parlare a vanvera, e in un culto scrupolosissimo dell’ozio e del rimandare
tale che persino Oblomov impallidirebbe.
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