L’infinito di amare – Sergio Claudio Perroni

SINTESI DEL LIBRO:
La vede dopo molti anni, qualcosa come dieci, qualcosa come ieri l’altro.
La scena si svolge in un aeroporto, si svolge in un bosco, la scena si
svolge in una segheria, in un atrio d’albergo, in un tram.
Lei è in piedi, lei è seduta, lei è in piedi ma di profilo, è di profilo ma
l’altro – di spalle non è. Lui la vede più bella di allora, di ieri, che mai. La
trova ringiovanita, la trova invecchiata, la trova di un’età inverosimile. La
trova e tanto basta.
La guarda e vorrebbe parlarle, vorrebbe chiederle perché, come mai,
che motivo c’era. La guarda e vorrebbe solo chiederle com’è stata senza di
lui, chiederle com’è stato senza lui.
Le guarda accanto e vede una bambina che la tiene per mano o una
valigia con sopra un giornale o solo l’ombra sterminata delle sue gambe,
accanto e vede l’ombra sterminata delle sue gambe adesso sfiorata dalla
propria. Non credeva di esserle così vicino.
Richiamata da quell’aggiungersi di ombra, lei alza gli occhi e lo vede,
richiamata dalla bambina (mamma, perché quel signore ti fissa?) lei alza
gli occhi e lo vede, dallo scivolare del giornale alza gli occhi e lo vede,
dall’istinto alza gli occhi e lo vede.
Fa finta di non conoscerlo, fa finta di non riconoscerlo, non lo
riconosce davvero perché è molto cambiato, non lo riconosce perché così
uguale ad allora non può essere davvero lui.
Aveva desiderato non vederlo più, non vederlo mai più, vederlo almeno
una volta per dirgli mai più.
Adesso che lo rivede per caso in quell’aeroporto, in quel bosco, in quel
tram, è come se non avesse mai smesso di vederlo, adesso che lo rivede per
caso è come se dovesse imparare di nuovo a vederlo anche se solo per
pochi istanti, adesso che lo rivede per caso ha paura che sia solo per pochi
istanti.
Lei crede al caso, lei non crede al caso ma ha paura di crederci adesso;
lui non crede al caso, lui non ha mai smesso di sperare che almeno il caso
li riportasse vicini.
Le due ombre si sono staccate perché lei ha fao un passo indietro, si
sono fuse perché lui ha fao un passo avanti, le due ombre si
sbocconcellano perché le luci del bosco del tram della segheria non stanno
mai ferme, le due ombre si sbocconcellano perché i corpi da cui dipendono
non hanno le idee chiare.
Lui vorrebbe sorriderle, vorrebbe toccarla, vorrebbe baciarla come se
non fosse successo niente, lui vorrebbe baciarla per costringere tuo a non
essere successo.
Lei vorrebbe toccarsi i capelli per distrarsi dalla voglia assurda di
baciarlo, lei non si tocca i capelli perché ha paura che lui ricordi il vero
significato di quel gesto, lei ricorda il significato di qualsiasi gesto di lui,
lei si tocca i capelli.
La bambina chiede qualcosa (mamma, perché fissi quel signore?) ma lei
non la sente, la bambina non chiede niente perché non c’è nessuna
bambina, la valigia non chiede niente perché non c’è nessuna valigia e
comunque le valigie non parlano, l’ombra è finita soo quella di lui e
anche se potesse chiedere qualcosa non si sentirebbe, allora è lei a
chiedere qualcosa, è lui a chiedere qualcosa, qualcosa che entrambi non
sentono nel frastuono della segheria, nel silenzio del bosco, qualcosa che
entrambi capiscono solo dalla reazione dell’altro.
Che è comunque: “Sì, se vuoi.”
Ieri
Adesso lei lo osserva mentre dorme, e cerca di immaginarlo agire da
personaggio dentro i suoi stessi sogni. Pensa sorridendo a quali effei
possa avere su quel truce piglio da solitario la coscienza di essere
finalmente alle prese con nient’altro che il proprio sguardo, sia pure lo
sguardo cauto e un po’ stupito della mente che sogna.
Un’idea che la intenerisce per come le propone autita la grossolana
immaturità di lui, ma che proprio per questa sgradita tenerezza non
capisce fino a che punto le stia riuscendo; o se non sia piuosto il pensiero
di sé a sostituirsi a quello con lui in azione nei propri sogni. Allora prende
a immaginare anche se stessa in quei sogni, chiedendosi se almeno lì le
loro due figure riuscirebbero a non avere di familiare altro che l’aspeo e
le azioni, casi cui l’apparente estraneità di moventi dispensata dai sogni
darebbe la perfezione dell’accidentalità. Due figure ben architeate, di cui
osservare le azioni senza il timore di trovarvi motivi. Come personaggi
piovuti da una storia altrui.
Per loro due ha sempre avuto la diffidenza che si ha per quelle
somiglianze che qualcuno fa notare e in cui, pur non condividendole, il
senso complessivo dei lineamenti osservati finisce inevitabilmente in
combua con quelli di cui è stato proposto il paragone. Lo stesso è
accaduto con il suo affreato entusiasmarsi nell’ipotizzare reciproca
pertinenza (e solo grazie all’irresistibile mistero di quelle due sagome,
complementari ma di nesso del tuo presunto) nelle loro due figure viste
dall’esterno; un po’ come quelle canzoni che arrivano da lontano mentre,
seduti in una piazza, si pensa ad altro, e con note arbitrarie se ne
riempiono i tempi che una fiacca di vento ha lasciato vuoti, costringendole
a somigliare a un tema che hanno solo evocato e cui forse nemmeno si
avvicinano.
Sorride lui sentendo il respiro di lei a un filo dalle labbra,
improvvisamente sveglio. E apre gli occhi di scao per interrompere quel
pensiero, quasi vi temesse un’ostinazione capace di svegliare anche lei,
arrivandole tra i sogni ad anticiparne la fine e rovinandogli la possibilità di
starla a guardare come vorrebbe.
Conosce questo del sonno come il più dolce tra i modi del corpo di lei;
gli preme assaporarlo prima che il risveglio lo alteri con l’immancabile rito
delle effusioni, viziate come sarebbero da una spontaneità ancora un po’
forzata, e soprauo vòlte a stemperare il pudore per l’aver trovato anche
nella realtà quant’era parso anticipare il sogno: un corpo accanto al
proprio; con il conseguente disagio più tenace di ogni altro pudore, e
quantunque l’intimità con quello stesso corpo sia già più che instaurata in
ciascuno dei restanti momenti della giornata.
Sorride lei, con gli occhi socchiusi e lo sguardo abbassato come per
vedersi sviluppare il sorriso da un lato all’altro della bocca, un po’ in salita
lungo la piega obliqua che hanno sempre le sue labbra quand’è sdraiata. E
sorride anche lui, benché di un sorriso un po’ diverso, il sorriso preventivo
di chi stia baloccandosi in testa qualcosa che vorrebbe dire ma che ancora
non gli sembra abbia né la forma né l’adeguata maturazione affinché
anche chi l’ascolta possa sorriderne.
Si stanno di fronte, distesi paralleli sul leo, con la testa poggiata senza
forza sul braccio e i volti a un palmo l’uno dall’altro; ognuno intento al
proprio sorriso e tu’e due allontanati in uno di quegli aimi di distanza
che colpiscono come una folata quando si è vicinissimi da ore e ogni sé ha
una vacanza improvvisa che non può descrivere né far condividere,
traieoria di incomunicabilità il cui rigore caparbio irrita per la
propensione che l’io mostra a tornare in sé, e con sé a voler tornare
proprio a quell’isolamento rancido da cui era stato così faticoso
affrancarsi. I due sorrisi, infai, si riducono quasi immediatamente a una
traccia lungo le labbra; una traccia lieve, ma la cui simultaneità è
sufficiente a rassicurarli che l’altro non porrà l’esasperante domanda – a
cosa stai pensando? – che scocca puntuale quando uno dei due sia invece
rimasto a bordo del proprio sé concreto e se ne sporga per riafferrare
l’altro e rassicurarsi della sua aenzione, dimostrando così una debolezza
già fatale lungo la tensione che innerva le imminenze di un amore.
Non sono ancora certi l’uno dell’altro, così come non sono sicuri di sé
nei confronti dell’altro; e il perdurare muto di quell’involontaria
dimostrazione di forza reciproca li appaga fino a un nuovo sorriso. Si sono
sembrati sicuri, e sperano più di tuo di non doversi ricredere.
Si guardano brevemente negli occhi (e questo accentua l’espressione di
riconoscenza che vi era appena balenata), e poi dove ognuno sa
assembrarsi nell’altro la massima espressività; o forse solo dove a ciascuno
piace guardare l’altro per vederne subito ciò che vuole: lei la bocca; lui il
collo, che ormai le sa capace, nelle decine di aitudini che gli consente una
lunghezza non comune, di rifleere nitidamente ciascuna delle emozioni
progressive che se ne aspea, concentrate in un effeo complessivo di
avvenenza tale da accelerargli bruscamente le pulsazioni negli aimi
cruciali della percezione, mentre dallo sguardo l’espressione viene
risucchiata all’interno come se gli occhi avessero ceduto la propria
mansione ad altri organi sparsi lungo il corpo, che infai gli sembra
pretenda di inalare tu’intera lei araverso la pelle, tesa in lunghi respiri
disuguali. E restano ancora a guardarsi, sentendo se stessi preceduti e
percorsi da fioi di pensieri imprendibili, che si rinnovano a ogni minimo
ritorno compiuto dalle rispeive aenzioni verso le linee dei corpi.
Lei sente lentamente svanire la presa, e il suo sguardo oenere la
schiena di lui anziché la bocca; la schiena la cui forma, anche solo
ricordata, la eccita sempre sino a obbligarla alla distrazione; o forse la cui
forma sopraggiunge all’eccitazione come un motivo lungo cui consentirle
di svolgersi. Un po’ come avveniva quando le occorreva desiderarlo o
anche solo pensarlo mentre non c’era, e l’unico modo per ricordarne
l’intera fisionomia (o, perlomeno, la parte sufficiente per provarne
nostalgia) era, appunto, immaginarne la schiena anziché il viso. Del viso
non ricordava nulla di diverso da ciò che già ne pensava.
Non abbandona allora con la mano il lenzuolo per portarla a scorrere
sulla pelle di lui, come la punta delle dita sembra pretendere, ma resta
piuosto ad assistere alla sensazione che si libera dal corpo di lui verso di
lei mentre cerca di coglierne tui i risvolti. Si sente sbuffare
imperceibilmente col naso, come chi crede di mimetizzare un rumore
inopportuno coprendolo con altri ancora più incongrui; e si ritrova a
condividere ancora una volta, sebbene senza vedervi un nesso immediato,
il vago rammarico che spesso associa alle proprie considerazioni di fronte
al corpo di lui – cioè che quel corpo prima o poi riprenderà voce; e
purtroppo, con la voce, anche limiti.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo