L’Arabesco – Pitti Duchamp

SINTESI DEL LIBRO:
La luce fredda di febbraio illuminava le finestre dello studio,
mentre il Conte Alabardi aspettava il suo vecchio amico. Ogni volta
la vista del ritratto di sua moglie sul camino gli suscitava ricordi
agrodolci nei quali indugiava con nostalgia, non accorgendosi dei
minuti che passavano scanditi dai rintocchi della pendola principale
del castello. Il leggero bussare del domestico sulla porta lo
ricondusse alla realtà.
“Signore, è qui il Marchese della Spada” avvisò il
maggiordomo.
“Fallo entrare Settimo, e portaci del buon vino, qualcosa di
speciale… e i dolci di Maria” ordinò Alessandro.
Come se fosse a casa sua, Raffaele della Spada entrò senza
essere annunciato nella stanza, superò un paio di sedie zigzagando
con eleganza, abbracciò vigorosamente l'amico e chiese: “Mio caro,
vecchio e annoiato Conte, come stai?”.
“Non sei cambiato di una virgola, maledetto scialacquatore”
rispose in tono scherzoso Alabardi ricambiando l’abbraccio.
Si sedettero davanti al fuoco, mentre Settimo poggiava il
rinfresco sul tavolinetto tra le poltrone, servendo prima l’ospite e poi
il padrone di casa di un generoso bicchiere di vino. I due si erano
conosciuti nell’esercito del Regno di Sardegna. Il Marchese della
Spada, allora giovane rampollo scellerato come pochi suoi coetanei,
era un ribelle che il padre - ottimo amico e consigliere dell’allora
Duca di Savoia, Piemonte e Aosta e Re di Sardegna Vittorio
Amedeo III di Savoia - aveva costretto ad arruolarsi come soldato
semplice. Approvato e spalleggiato dal Re, il tentativo del genitore di
riportare il figlio sulla retta via non valse a granché. Dopo pochi anni
nell’esercito regio, Raffaele si fece la fama di infaticabile amatore tra
le prostitute dei più rinomati bordelli torinesi e di amante galante e
discreto tra le nobildonne della corte dei Savoia; giocava d’azzardo;
quando era ubriaco diventava molesto e attaccabrighe e più di una
volta si trovò a tu per tu con la morte durante alcune risse in bische
di infima categoria. Il Marchese della Spada e il Conte Alabardi
erano due facce della stessa medaglia: nobile furfante l’uno, calmo,
riservato e romantico l’altro. Da questa complementarietà era nata
un’amicizia profonda, nonostante la differenza di età e il grado
militare. Nella frequentazione assidua e costretta della caserma si
erano scoperti uniti dagli stessi valori, dallo stesso patriottismo, dalla
stessa intelligenza vivace ed era sorto un legame che durava
ancora, dopo tanti anni e tanta vita passata segnata sui volti di
entrambi.
I due amici parlavano mentre il riflesso pallido della finestra
baciava il ciliegio della grande scrivania, la pelle del servizio da
scrittura, le alte sedie rivestite di cuoio e decorate con gli stemmi
dorati dei Conti Alabardi e i bagliori illuminavano fiocamente il soffice
tappeto persiano dai complicati fregi e gli sgargianti colori e i
numerosi volumi rilegati nelle librerie che occupavano tre delle pareti
della stanza.
“Da quanti anni non vieni in questa casa?” domandò
Alessandro.
“Saranno almeno sette anni, se non ricordo male dal funerale
di tua moglie. Non metto piede in Toscana da allora, ci siamo
sempre visti nella tua casa piemontese”.
“Sono già passati sette anni?”.
“Sì… e ricordo anche tua figlia… una ragazzina deliziosa
all’epoca. Quanti anni aveva?” chiese Raffaele.
“Tredici, povera piccola mia. Perdere la mamma a quell’età!
Ho cercato di fare il possibile ma… ahimè, l’unico modo per non
farmi sopraffare dal dolore è stato dedicarmi completamente al
lavoro e per questo penso di averla trascurata” rispose malinconico il
Conte.
“La ricordo una bambina dolce, spero per te che abbia il buon
carattere di sua madre”. All’epoca la figlia, sconvolta da un dignitoso
dolore troppo grande per delle spalle così minute, aveva stretto il
cuore del Marchese. Le lacrime le rigavano il viso quando l’amico del
padre la trascinò via dalle mani severe della governante per farle
dono di un prezioso carillon che aveva portato da Venezia. La
destinataria originaria in realtà sarebbe dovuta essere una donna
che Raffaele intendeva rabbonire per il suo repentino abbandono,
ma poi decise di fare altro uso del prezioso omaggio. La ragazzina
prese con incertezza il manufatto di legno laccato, una scatola
colorata di un intenso azzurro e decorata su ogni bordo con
rampicanti di fiori e foglie d’argento, aprì il coperchio e si drizzarono
due maschere che danzavano insieme su un’allegra melodia. Le
statuine di Arlecchino e Colombina, avvinghiate nella frenesia del
Carnevale, erano di fine porcellana, colorate con smalti dai toni
vivaci. Il vano portaoggetti era dipinto di un rosa polvere che
contrastava con l’azzurro acceso dell’esterno. Non servì di certo a
domare il lutto, eppure la bambina sembrò per un attimo
rasserenata, smise di piangere e, quando arrivò il momento di
salutare il gentile amico del padre, si sciolse in un caloroso sorriso.
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