La ragazza e la notte – Guillaume Musso

SINTESI DEL LIBRO:
Sophia-Antipolis. Sabato 13 maggio 2017.
Parcheggiai l’auto a noleggio sotto i pini, vicino alla stazione di servizio,
a trecento metri dall’ingresso del liceo. Arrivavo direttamente
dall’aeroporto, e durante il volo New York-Nizza non avevo chiuso occhio.
Il giorno prima avevo lasciato precipitosamente Manhattan dopo avere
ricevuto via e-mail un articolo sui festeggiamenti per il cinquantenario del
mio liceo. L’e-mail mi era stata inoltrata tramite la messaggeria della mia
casa editrice da un vecchio amico, Maxime Biancardini, che non vedevo da
venticinque anni.
Maxime mi aveva lasciato un numero di cellulare che esitai a chiamare
prima di ammettere a me stesso che non potevo fare altrimenti.
“Hai letto l’articolo, Thomas?” mi chiese, senza preamboli.
“Ti chiamo proprio per questo.”
La sua voce aveva ancora l’intonazione di un tempo, familiare ma
deformata da un’eco febbrile che tradiva urgenza e paura.
Non risposi subito alla sua domanda, pur sapendo cosa intendesse. Era la
fine delle nostre vite così come le avevamo conosciute. E il presentimento
che avremmo trascorso il resto della nostra esistenza dietro le sbarre.
“Devi venire in Costa Azzurra, Thomas,” disse Maxime, dopo alcuni
secondi di silenzio. “Dobbiamo mettere a punto un piano per evitare il
peggio. Dobbiamo fare qualcosa.”
Chiusi gli occhi, ripensando alle conseguenze di quanto sarebbe
accaduto: la vastità dello scandalo, le sue implicazioni giudiziarie, l’ondata
di shock che avrebbe investito le nostre famiglie.
Avevo sempre messo in conto la probabilità che arrivasse quel giorno.
Avevo vissuto quasi venticinque anni – o avevo finto di viverli – con quella
spada di Damocle sospesa sopra la testa. Mi svegliavo in piena notte,
madido di sudore, pensando agli eventi che si erano svolti all’epoca e alla
possibilità che un giorno qualcuno li scoprisse. Per riaddormentarmi
ingoiavo un Lexomil aiutandomi con un sorso di Karuizawa, ma era raro
che riprendessi sonno.
“Dobbiamo farci venire un’idea,” ripeté Maxime.
Ma era una vana illusione, lo sapevo. Perché quella sera di dicembre del
1992 eravamo stati noi stessi gli artificieri della bomba che adesso
minacciava di travolgere il corso delle nostre vite.
E sapevamo entrambi che non c’era alcun modo per disinnescarla.
2.
Dopo aver chiuso le portiere, mi diressi verso la stazione di servizio. Era una
sorta di emporio all’americana, che tutti chiamavano Chez Dino. Dietro le
pompe di benzina sorgeva un edificio di legno, una costruzione in stile
coloniale che ospitava un negozio e un caffè elegante, con una lunga fila di
tavolini all’aperto disposti sotto una tettoia.
Spinsi la porta a molla. Il locale non era cambiato molto: aveva ancora un
certo fascino rétro. In fondo alla sala, a ridosso di un bancone di legno
laccato – alle cui estremità c’erano dolci di vari colori sotto due campane di
vetro –, si trovavano alcuni alti sgabelli. Il resto dello spazio era impegnato
da panche e tavolini che occupavano anche l’esterno. Sul muro erano affisse
targhe smaltate, vecchie pubblicità di aziende oggi scomparse, accanto a
manifesti della Riviera degli Anni Ruggenti. Per far posto ai tavolini, erano
stati sacrificati il biliardo e i videogiochi in cui avevo sperperato tanti
spiccioli: Out Run, Arkanoid, Street Fighter II. Solo il calciobalilla era
sopravvissuto: un vecchio Bonzini da competizione con il fondo scalfito
dall’usura.
Non potei trattenermi dall’accarezzare il rivestimento in faggio
massiccio. Era lì che io e Maxime avevamo replicato le grandi partite
dell’Olympique. Mi tornarono alla mente le immagini di allora: la tripletta di
Papin nella Coppa di Francia 1989
il fallo di mano di Vaca contro il Benfica
l’esterno destro di Chris Waddle contro il Milan, nella famosa sera in cui
al Vélodrome era saltato l’impianto d’illuminazione. Purtroppo, non
eravamo riusciti a festeggiare insieme la vittoria tanto attesa – la conquista
della coppa nella finale della Champions League del 1993. All’epoca avevo
già lasciato la Costa Azzurra per proseguire gli studi in un istituto
commerciale di Parigi.
Mi lasciai contagiare dall’ambiente rétro del caffè. Maxime non era
l’unico con cui ero solito frequentare il locale dopo le lezioni. I miei ricordi
più struggenti erano legati a Vinca Rockwell, la ragazza di cui ero
innamorato allora. La ragazza di cui tutti eravamo innamorati. Sembrava
ieri, e invece era trascorsa un’eternità.
Avanzando verso il banco, i ricordi si focalizzarono nella mia memoria e
avvertii un brivido lungo la schiena. Rividi il viso chiaro di Vinca, i suoi
denti di squalo portafortuna, i suoi abiti leggeri, la sua paradossale bellezza,
lo sguardo distaccato con cui osservava le cose. Ricordai che d’estate beveva
Coca-Cherry, mentre d’inverno ordinava tazze di cioccolata calda con
piccoli Chamallow che galleggiavano sulla superficie.
“Beve qualcosa?”
Non credetti ai miei occhi: il caffè era tuttora gestito dalla stessa coppia
italo-polacca – i Valentini – e non appena li vidi i loro nomi mi tornarono
alla mente. Dino smise di pulire la macchina dell’espresso per rivolgermi la
parola, mentre Hannah stava sfogliando il giornale locale. Era ingrassata e
aveva perso i capelli, la pelle era ingiallita e piena di rughe. Eppure, con il
tempo, la coppia sembrava ancora meglio assortita. Era l’effetto
normalizzatore della vecchiaia: faceva sfiorire le bellezze troppo vistose e
conferiva a volte una nuova patina ai fisici meno attraenti.
“Prenderò un caffè, grazie. Un espresso doppio.”
Lasciai passare qualche secondo e poi riesumai il passato, evocando il
fantasma di Vinca.
“E un Coca-Cherry con ghiaccio e cannuccia.”
Per un attimo, credetti che uno dei Valentini mi avesse riconosciuto. Mio
padre e mia madre erano stati presidi del Saint-Ex tra il 1990 e il 1998. Lui
era responsabile del liceo, lei dei corsi propedeutici e, grazie alla loro
posizione, beneficiavano di un alloggio all’interno dell’istituto. Era per
questo che frequentavo spesso il locale. In cambio di alcune partite gratuite
di Street Fighter, aiutavo Dino a sistemare l’angolo bar e a preparare le sue
famose frozen custards, la cui ricetta era una creazione del padre. Mentre
Hannah continuava a tenere gli occhi fissi sul giornale, il vecchio italiano
incassò i miei euro e mi servì caffè e Coca-Cherry senza che alcun lampo di
riconoscimento illuminasse il suo sguardo stanco.
La sala era vuota per tre quarti, cosa sorprendente anche per un sabato
mattina. Il Saint-Ex annoverava molti fuori sede e, ai miei tempi, una buona
parte di loro si fermava anche durante il weekend. Ne approfittai per
sedermi al tavolino preferito da Vinca e da me: l’ultimo in fondo alla fila
all’aperto, sotto i rami odorosi dei pini. E poiché gli astri si riconoscono
infallibilmente tra loro, Vinca sceglieva sempre la sedia esposta al sole. Con
il vassoio tra le mani, mi sedetti al solito tavolino, lo schienale rivolto verso
gli alberi. Poi impugnai la tazza di caffè e deposi il bicchiere di Coca-Cherry
davanti alla sedia vuota.
Dagli altoparlanti risuonavano le note di un vecchio successo dei R.E.M.,
Losing My Religion, che a dispetto del titolo non parlava di fede, ma del
tormento amoroso di un affetto unilaterale. L’angoscia di un ragazzo che
grida alla ragazza che ama: “Ehi, guarda, sono qui! Perché non mi vedi?” Un
condensato della storia della mia vita.
Una leggera brezza faceva tremolare i rami, il sole accendeva di riflessi la
tettoia di plastica. Per alcuni secondi, la magia fece il suo effetto,
proiettandomi all’inizio degli anni Novanta. Davanti a me, sotto la luce
primaverile che filtrava tra i rami, si animò il fantasma di Vinca e alle mie
orecchie risuonò l’eco delle nostre discussioni appassionate. Lei
s’intratteneva con fervore su L’amante e Le relazioni pericolose. Io le
rispondevo parlando di Martin Eden e di Bella del Signore. E, seduti a quel
tavolo, parlavamo per ore dei film che avevamo visto il mercoledì
pomeriggio allo Star di Cannes, o al Casino di Antibes. Lei si entusiasmava
per Lezioni di piano e Thelma e Louise, io per Un cuore in inverno e La doppia
vita di Veronica.
Quando la canzone finì, Vinca inforcò i Ray-Ban, succhiò dalla cannuccia
un sorso di Coca-Cherry e, da dietro le lenti colorate, mi strizzò l’occhio. Poi
la sua immagine si dissolse fino a svanire completamente, chiudendo la
parentesi incantata in cui mi ero calato.
Anche il caldo implacabile dell’estate 1992 era svanito. Adesso ero solo,
triste e trafelato a forza di correre appresso alle chimere della mia perduta
giovinezza. Non vedevo Vinca da venticinque anni.
Venticinque anni nel corso dei quali nessuno l’aveva rivista.
3.
La domenica del 20 dicembre 1992, Vinca Rockwell, diciannove anni, fuggì
con Alexis Clément, il suo professore di filosofia ventisettenne, con il quale
intratteneva una relazione segreta. Erano stati visti insieme per l’ultima
volta la mattina del 21, in un albergo del VII arrondissement, vicino alla
basilica Sainte-Clotilde. Dopodiché, a Parigi, si persero le tracce di entrambi.
Non ricomparvero più, non contattarono mai le rispettive famiglie e gli
amici. Erano letteralmente evaporati.
Questo, almeno, secondo la versione ufficiale.
Sfilai dalla tasca l’articolo di “Nice-Matin” che avevo già letto un
centinaio di volte. Sotto un’apparenza banale, conteneva un’informazione le
cui drammatiche conseguenze avrebbero rimesso in discussione l’idea che
tutti avevano maturato sul caso Vinca Rockwell. Oggi si rivendicano a ogni
occasione verità e trasparenza, ma la verità è di rado quella che sembra e, in
quella particolare circostanza, non avrebbe recato né tranquillità né
elaborazione del lutto né giustizia. La verità avrebbe comportato solo eventi
funesti, cacce all’uomo, calunnie.
“Oh! Scusi, signore!”
Avanzando tra i tavolini, un liceale maldestro aveva fatto vacillare il
bicchiere di Coca. Grazie alla mia prontezza di riflessi riuscii ad afferrarlo al
volo, prima che cadesse. Assorbii il liquido sparso sul tavolo con i tovaglioli
di carta, ma la Coca mi era schizzata sui pantaloni. Mi alzai e attraversai il
locale per raggiungere la toilette. Impiegai cinque minuti buoni per far
sparire le macchie, e quasi altrettanto per asciugare il vestito. Era meglio
non presentarsi alla riunione degli ex allievi in quel modo: avrebbero
pensato che mi fossi pisciato addosso.
Tornai al mio posto per recuperare la giacca che avevo lasciato appesa
allo schienale. Quando posai gli occhi sul tavolo, i battiti del mio cuore
accelerarono di colpo. Mentre ero alla toilette, qualcuno aveva piegato in
due la fotocopia dell’articolo e lasciato lì accanto un paio di Ray-Ban
Clubmaster con le lenti colorate. Chi mi aveva giocato quel perfido scherzo?
Mi guardai attorno. Dino stava parlando con un cliente accanto alle pompe
di benzina. Hannah stava innaffiando i gerani dall’altro lato dei tavoli. A
parte i tre operai in pausa, appollaiati sugli sgabelli davanti al bancone, i rari
clienti erano liceali intenti a digitare sulle tastiere dei loro MacBook e a
chattare sul cellulare.
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