Nulla al mondo di più bello: L’epopea del calcio italiano fra guerra e pace 1938-1950 – Enrico Brizzi

SINTESI DEL LIBRO:
Pozzo, Meisl, Chapman: le filosofie del football – Peppino Meazza, il “Balilla” che
diventò un signore – Silvio Piola, professione cannoniere – I campioni della
Mitteleuropa: “Cartavelina” Sindelar e “Pepi” Bican
Footballer dell’epoca dei pionieri e socio granata sin dalla fondazione del
Torino, Vittorio Pozzo era stato ufficiale alpino durante la Grande Guerra; nel
conflitto ch’era costato all’Italia un’intera generazione, erano stati falciati i
pezzi più pregiati del massimo torneo, compreso il capitano della Nazionale,
l’interista Virgilio Fossati. Era stato lui, dopo anni di esperimenti più o meno
casarecci, a prendere la guida degli Azzurri con piglio severo e appassionato: il
football non era più l’ingenuo carosello del “calcia e corri”, ma una disciplina
da affrontare in maniera scientifica, studiando i progressi della tecnica sportiva
e le nuove concezioni tattiche. Se dal vivo era burbero e parco di parole, i suoi
pezzi per «La Stampa» erano invece di fluviale generosità: vi si legge in
controluce l’aspirazione a un ruolo inedito nella società italiana. Da un lato
Pozzo è l’aedo di un’epopea nella quale egli stesso copre un ruolo
fondamentale: il primo giornalista sportivo d’Italia racconta le gesta dei suoi
Azzurri con il sobrio positivismo piemontese di un De Amicis del football;
pur concedendosi di tanto in tanto alla retorica nuova del Regime, il mondo
che racconta è quello dove trionfano la “ferrea volontà”, “il sacrificio”, “la
comune volontà di trionfare”. Dall’altro, Pozzo è una sorta di apprendista
stregone; da ragazzo ha giocato in Svizzera, un Paese all’epoca all’avanguardia
rispetto allo scalcagnato panorama italiano, e frequenta con rispettosa curiosità
le scuole di magia più in voga all’epoca: segue l’inarrivabile football dei maestri
britannici, professionisti da decenni, e trova una ricetta vincente nelle
intuizioni dell’austriaco Hugo Meisl, capofila della scuola danubiana. Come
l’Austria, l’Ungheria e la Cecoslovacchia, l’Italia di Pozzo giocherà secondo i
principi del Metodo: due terzini incollati dietro; tre uomini in mediana fra i
quali il centrale, o centrosostegno, a svolgere il ruolo-chiave di regista della
manovra; gli “avanti” sono cinque uomini: le due ali sulle estreme, gli interni
arretrati e il centrattacco in mezzo.
È un sistema di gioco che deriva direttamente dall’ur-schema del football, la
cosiddetta “piramide di Cambridge”, alla quale il Metodo aggiunge un
dinamismo che solo la precisione nei passaggi e i movimenti ragionati possono
sprigionare appieno, e ogni scuola nazionale lo fa alla sua maniera.
Nella patria del calcio, frattanto, la “piramide” sta ormai lasciando il posto a
una concezione di gioco tutta nuova introdotta dal mister dell’Arsenal Herbert
Chapman. Il Sistema inglese prevede l’arretrare del centrosostegno in mezzo ai
due terzini, uno spostamento che lo declassa da regista a strenuo marcatore del
centravanti avversario. Gli interni, o mezze ali, scivolano a loro volta indietro
rispetto alla linea degli “avanti”, formando un quadrilatero con i due mediani
per lasciare in attacco tre soli uomini. Visto dall’alto, lo schieramento degli
uomini fa pensare a una W sovrapposta a una M, e con la disposizione in
campo cambia anche il modo di giocare: le difese si trasformano in fortezze
difficili da espugnare, il gioco nasce nel cuore del campo, e se il ruolo di
centravanti diventa più complicato, le ali si scoprono cannonieri.
Di passare al gioco inglese Pozzo non ne vuole sapere: lo ritiene inadatto alle
nostre caratteristiche, e per indole è contrario a salti nel buio. D’altronde col
sacrosanto Metodo si è vinto tutto: che bisogno c’è di cambiare il gioco d’una
Nazionale che ha conquistato la Coppa Rimet e si appresta a difendere il titolo
in un torneo che la vede tra le favorite?
Nel gruppo che il commissario tecnico porta in ritiro a Cuneo, già sede di
un’estenuante clausura prima dei vittoriosi Mondiali del ’34, ci sono alcuni dei
giocatori più ammirati d’Europa.
La stella assoluta della squadra è Peppino Meazza, il “Balilla”, l’uomo che
mette a sedere i difensori e fucila i portieri. Si era appena affacciato alle
elementari quando ha perso il padre durante la Grande Guerra, e la medaglia
recapitata dallo Stato maggiore non ha risollevato la disastrata economia
domestica, così che la madre si è dovuta spaccare la schiena e “Peppìn” si è
ritrovato a trascorrere lunghe giornate per strada, curioso delle disfide
ciclistiche e del rombante passaggio dei bolidi. I signori pasciuti si possono
divertire al volante delle Alfa, delle Bugatti e delle Maserati; ai ragazzini nutriti
alla meno peggio come lui restano le partite di pallone sui prati, l’abbraccio
degli amici a ogni nuovo punto marcato e il sogno di possedere, un giorno, un
paio di scarpe da calcio come quelle che sfoggiano i figlioli dei “bauscia”. Un
giorno un signore vede quel magrolino dalla fronte bassa e le gambe storte
seminare tutti i coetanei ed esplodere bordate di rara precisione, così decide di
premiarlo. Potrà avere le sue scarpe, e anche il resto della divisa, giocherà in
una squadra vera, il Gloria. Il suo ruolo di adolescente prodigio nei tornei
milanesi regolati dall’ULIC – l’Unione Libera Italiana del Calcio fondata da
Luigi Martinelli detto “Papà Half”, organizzazione dilettantistica antagonista
della FIGC, che la assorbirà soltanto nel 1927 – è brevissimo: lo notano subito
Milan e Inter, i primi lo scartano perché troppo smunto, i Nerazzurri non se
lo fanno scappare.
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