Nomi, cognomi e infami – Giulio Cavalli

SINTESI DEL LIBRO:

Arrivare a Gela, nel 2006, sotto quel suo sole così impudico per un ragazzotto
del nord è un trauma visivo che sa tutto di bruciato: Gela è l’avamposto
siciliano di un solleone che brucia anche gli angoli e gli spifferi.
Rosario Crocetta arriva con il passo quasi arabo e la scorta come uno scialle.
Mi sono spesso chiesto qual è l’inizio di questa storia, l’ho cercata con la
curiosità dell’archeologo sbadato. Come se l’inizio dovesse raccontarti tutte
le cause di una piega obliqua che ti ha investito la vita come uno strattone.
Quel passo affrettato di Saro è la prima foto sotto la luce verticale a sud del
sud.
Di fianco c’è la pasticceria della piazza con i caffè dentro la tazza bollente e
il sorso d’acqua alla spina nel bicchiere di plastica. Dietro la vetrina i dolci
hanno il sorriso di chi è finalmente a casa e l’aria salmastra ha un retrogusto
di cherosene. Se si deve scrivere di Cosa Nostra e di Stidda non puoi evitare
di farti bruciare in mezzo alla piazza parlandone con Saro.
Rosario Crocetta è per Gela il capitolo nuovo di un’altra storia. In una città da
sempre trincea della criminalità organizzata, nel 2003 diventa sindaco dopo
un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia che capovolge
la vittoria truccata del candidato del centrodestra Giovanni Scaglione.
Qualche centinaio di voti che erano spariti nemmeno troppo misteriosamente
qui a sud del sud, dove la proprietà dura il tempo della prossima prepotenza e
del prossimo inganno. Eppure non doveva vincere quel “comunista
finocchio” come diceva un boss gelese in un’intercettazione telefonica. Non
doveva vincere perché aveva la faccia e la schiena dritta di qualcuno che
avrebbe fatto male, che avrebbe spezzato quel filo invisibile ma saldo della
criminalità che riesce a prostituire la politica. Perché Saro è gay dichiarato
eppure dal polso inaspettatamente duro, un pugno per le mafie di Gela dove
tutto deve cambiare purché nulla cambi. Saro Crocetta con la fascia tricolore
obliqua in mezzo alla cravatta è un nodo di traverso per una città che si divide
tra i Rinzivillo e gli Emmanuello, signorotti di malcostume e prepotenza che
si siedono sulla città come su una tavola imbandita. Vincere, diventare
sindaco con un rovesciamento del risultato che era stato scritto è un inizio da
Arlecchino. Sarà per questo che Saro è l’inizio di questa storia.
Siamo dentro un ristorante al piano terra di un albergo circondato dalla sabbia
come un cantiere. Saro mangia con una personale idiosincrasia per le portate
e i tempi. Spizzica un contorno dopo la frutta o si fuma una sigaretta
infilandosi un gambero con l’aria completamente inconsapevole. «La lotta
alla mafia si compie con gli atti amministrativi dentro il Comune e con la
cultura e la consapevolezza fuori.» La frase ce l’ho ancora segnata su un
blocchetto di appunti da sempre nel fondo della valigia. Proclamarsi sindaco
antimafia a Gela dove di mafie ce ne sono (almeno) due sta tra il coraggio e
l’incoscienza. Ma sempre consapevole. «Se mi ammazzano dovranno capire
se ci sono riusciti per primi Stidda o Cosa Nostra.» A Rosario gliel’hanno
promessa. La condanna a morte ce l’ha scritta addosso ma se gli leggi il viso
non traspare. A parlare rimangono però le vertigini degli ultimi anni di
bombe scampate.
La prima gliel’hanno apparecchiata fresco fresco di elezioni. Non aveva fatto
in tempo ad arredare l’ufficio da sindaco che aveva licenziato la moglie del
boss Daniele Emmanuello. Depennata dalle liste del reddito minimo
d’inserimento. Se le battaglie di mafia sono un gioco di segnali, la moglie del
boss sollevata a calci nel sedere fuori dal giaciglio comodo dell’Ufficio
Ecologia è una dichiarazione di guerra. «È immorale che la moglie di un
miliardario, che si è arricchito grazie alla sua attività criminale, prenda il
posto di lavoro che invece spetta alla povera gente. In una città come Gela
occorrono gesti simbolici, ma anche di sostanza. Dobbiamo far capire che
siamo forti con i forti e disponibili con i deboli.» Una delle più belle
dichiarazioni di guerra di questo angolo d’isola sciagurata. Me la sono
immaginata la moglie del capo tornare a casa con la faccia al veleno, con
l’onore sputato da una lettera di licenziamento e la borsa con la cena da
scaldare. Una donna gravida di onore marcio che attraversa la piazza con il
sole verticale davanti al municipio come un’adolescente che si prepara a
giustificarsi in cucina. È un fiore che sboccia vincendo la polvere e il sole. E
gli Emmanuello avevano deciso che era troppo. In un’intercettazione così si
rivolgono al killer lituano ingaggiato per uccidere Rosario: «È sempre sui
giornali. Dice: “Gela mafiosa... io contro la mafia... Gela tutti mafiosi... io
essere pulito”». Minijus Marijus Denisenko aveva accettato. «A Kamas, dove
io sono nato, uguale, questa squadra come Corleone. Ammazzare a qualcuno,
ma non è un grosso problema? Io ce l’ho con chi risolvere, ce l’ho nostra
squadra, operiamo come squadre di Corleone

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