La campana in fondo al lago – Lars Mytting

SINTESI DEL LIBRO:
La nascita fu un’impresa. Forse la più difficile dalla notte dei tempi,
per giunta in un villaggio dove i parti difficoltosi erano tutt’altro che
rari. La pancia era grossa, ma solo al terzo giorno di travaglio fu
evidente che si trattava di una gravidanza gemellare. Le
complicazioni del parto, quanto a lungo le grida echeggiarono nella
casetta di tronchi e in che modo le donne attorno a lei riuscirono a
portare alla luce le bambine, tutto è caduto nel dimenticatoio. Troppo
truculento per essere narrato, troppo sgradevole per essere
ricordato. La madre, lacerata, morì di emorragia e il suo nome
lentamente uscì dalla storia. I posteri ricordano solo le gemelle e
quel loro difetto. Erano unite dalle anche in giù.
Tutto qui. Per il resto le bambine respiravano e strillavano.
Apparivano vispe.
I genitori erano della fattoria degli Hekne e le gemelle furono
battezzate con i nomi di Halfrid e Gunhild Hekne. Crebbero
normalmente, sorridevano spesso e non erano d’impiccio, anzi,
infondevano allegria: l’una all’altra, al padre, ai fratelli, all’intero
villaggio. Ben presto furono messe al telaio verticale, davanti al
quale trascorrevano le giornate muovendo in accordo le quattro
braccia tra i fili d’ordito, veloci al punto che era impossibile
determinare chi stesse infilando la trama in un preciso momento. I
motivi che ricamavano erano di una bellezza singolare, spesso
misteriosi, e i loro manufatti venivano scambiati con argento o
animali da cortile. A quei tempi a nessuno veniva in mente di firmare
il proprio lavoro e, in seguito, molti avrebbero comprato un arazzo di
Hekne, anche se di dubbia autenticità, a caro prezzo.
Il più famoso raffigurava la Skråpånatta, il Giorno del giudizio
nell’immaginario locale, un’evoluzione del Ragnarök della mitologia
norrena: un mare di fiamme illuminerà la notte a giorno e, quando
tutto sarà ridotto in cenere e il cielo tornerà scuro, la terra verrà
scorticata fino alla nuda roccia, infine all’alba i vivi e i morti verranno
condotti al giudizio. Donato alla chiesa, questo arazzo vi rimase
appeso per generazioni, fino a quando una notte non sparì nel nulla.
Raramente le sorelle si allontanavano dalla fattoria, nonostante
avessero meno difficoltà a muoversi di quanto si possa immaginare.
Procedevano con un’andatura in tre tempi, come se reggessero con
una mano ciascuna un secchio stracolmo d’acqua. L’unico ostacolo
insormontabile per le bambine era il pendio su cui sorgeva la fattoria,
che d’inverno ghiacciava trasformandosi in un pericolo mortale. Per
fortuna il loro era il versante esposto al sole, dove il disgelo arriva in
anticipo, così, spesso già in marzo, le sorelle facevano capolino
assieme ai raggi primaverili.
La fattoria, fra i primi insediamenti in quelle terre incolte,
possedeva due malghe ed era una delle più floride. Alla Malga
Grande tenevano una mandria di bovini ben nutriti che si cibavano
d’erba di un bel colore verde scuro. Gli Hekne raggiungevano con
facilità la Fossa di Sotto, un laghetto ricco di pesce con una rimessa
per barche fatta di grossi tronchi. Tuttavia la vera ricchezza di un
contadino del Gudbrandsdalen si misurava nella quantità d’argento
che custodiva nel baule. Nessuna fattoria poteva definirsi tale se non
disponeva di un servizio di posate d’argento da diciotto e, grazie alla
vendita degli arazzi, il casato racimolò argenteria sufficiente per
trenta commensali.
Quando le gemelle Hekne erano ormai adolescenti, una si ammalò.
Incapace di sopportare il pensiero che la superstite dovesse
trascinare il peso del cadavere della sorella, Eirik Hekne andò in
chiesa e pregò che le figlie morissero assieme.
La preghiera fu ascoltata dal pastore e, a quanto pare, anche da
Dio. La morte le colse il giorno stesso. Nelle loro ultime ore le
ragazze vollero restare sole. Il padre e i fratelli, in attesa sulla porta
della camera, le sentirono parlare di faccende importanti rimaste in
sospeso. Quel giorno le sorelle ultimarono l’arazzo della
Skråpånatta. L’avevano iniziato insieme e Gunhild lo completò dopo
che le braccia di Halfrid cessarono di essere d’aiuto. Eirik lasciò
lavorare in pace la figlia, perché le sorelle si erano sempre distinte
per qualcosa di più grande, qualcosa che lui e gli altri comuni mortali
non avevano mai compreso fino in fondo. All’imbrunire si sentì un
colpo di tosse, seguito da un tonfo sul pavimento.
Gli Hekne entrarono e videro Gunhild in punto di morte. Lei parve
non fare caso alla loro presenza e, sdraiata con il viso rivolto alla
sorella, sussurrò: «Spola lunga tu, spola corta io, torneremo quando
la tela sarà tessuta».
Trasse a sé le mani di Halfrid e le chiuse nelle sue. Rimasero così,
le mani giunte in una preghiera a due voci.
In seguito fra i parenti ci fu disaccordo sul significato delle parole
di Gunhild, perché la frase era poco chiara. La “spola” poteva
indicare sia l’utensile da lavoro sia un andirivieni. Quando l’arazzo fu
donato alla chiesa, il pastore volle annotare le ultime parole di
Gunhild sul retro della tavola a cui era fissato. La lingua scritta non
ammetteva ambiguità e il testo si trasformò in una didascalia: Tu
infilerai la spola lunga e io quella corta, e torneremo entrambe
quando l’arazzo sarà finito.
Le ragazze furono seppellite sotto il pavimento della chiesa e, a
ringraziamento del fatto che era stato concesso loro di morire
insieme, Eirik Hekne fece fondere due campane. Furono chiamate le
Campane Sorelle e producevano un suono d’intensità e profondità
ineguagliabili, che si propagava in tutta la valle e risaliva le
montagne echeggiando contro le pareti rocciose. Quando la
superficie del Løsnesvatnet, il lago ai piedi della chiesa, si
trasformava in una lastra di ghiaccio lucido, i rintocchi si spingevano
fino ai tre villaggi vicini, sovrastando come una remota armonia le
campane delle chiese locali. Alcuni sostenevano che, se il vento
soffiava in quella direzione, le Campane Sorelle potevano essere
sentite perfino dalle malghe.
Il primo campanaro ne rimase assordato dopo tre funzioni. Fu
costruito un ballatoio in legno ai piedi del campanile per il
successore, che si avvolgeva con una cinghia di cuoio la testa e le
orecchie dopo averle riempite di cera d’api.
Il clangore delle Campane Sorelle non era malinconico né
spaventoso. Ogni rintocco portava una promessa di primavere
migliori, un suono vibrante con sfumature persistenti e piacevoli. Le
note penetravano nel profondo, spalancavano orizzonti superiori e
commuovevano persino gli insensibili. Se il campanaro era bravo,
poteva tramutare i miscredenti in fedeli. Il possente rimbombo era
dovuto all’amalgama con cui erano state fuse. All’epoca, infatti, era
diffusa la pratica d’inserire argento nel metallo con cui si fondevano
le campane. Maggiore la quantità d’argento, migliore il suono.
Gli stampi finemente lavorati e tutto quel bronzo erano costati a
Eirik Hekne una fortuna ben superiore a quanto le figlie avessero
mai ricavato dalla vendita degli arazzi. Nel tormento del dolore
l’uomo si era avvicinato al crogiuolo e vi aveva gettato tutta
l’argenteria in suo possesso, infine si era frugato nelle tasche per
lanciare nella lega bollente altre due generose manciate di talleri
d’argento. Le monete erano rimaste a galla nel bagno di fusione
incredibilmente a lungo, prima di dissolversi in bolle d’aria.
La prima volta che le Campane Sorelle segnalarono un pericolo fu in
occasione di una delle grandi inondazioni della valle. Lo scioglimento
delle nevi fu improvviso e violento, il tetro cielo estivo faceva venire
l’emicrania. La notte in cui il fiume straripò, il villaggio fu svegliato dal
fragore delle campane. Sotto la pioggia battente, gli abitanti di due
fattorie riuscirono a mettersi in salvo appena prima che le loro case
venissero spazzate via. Massicce costruzioni in legno si capovolsero
e la corrente, aprendo uno squarcio impetuoso nel paesaggio,
trascinò con sé i tronchi strappati come frasche senza vita. Le
pecore, grossi fagotti bianchi, galleggiavano pesanti nelle acque del
Løsnesvatnet. Solo in seguito, quando ancora sotto la pioggia si fece
la conta e risultò che nessun membro della famiglia del campanaro
mancava all’appello, i paesani si accorsero che questi non era mai
entrato in chiesa e, quando il pastore andò a controllare, la porta era
ancora chiusa a chiave.
All’epoca Eirik era morto da diversi anni. Nessuno racconta se poi
si fosse pentito di aver fuso il suo argento, ma per realizzare le
Campane Sorelle ce ne volle una quantità tale che più volte la
fattoria fu sul punto di essere battuta all’asta. Se fosse stato
possibile smembrare Hekne in una Fattoria di Sopra e una Fattoria
di Sotto lo si sarebbe fatto senza esitare, ma il podere era troppo
scosceso e angusto. Negli anni seguenti l’ufficiale giudiziario si
prese la Fossa di Sotto, due mezzadrie e la Malga Grande. Benché
le generazioni successive rischiassero di finire sul lastrico per via
degli eccessi di Eirik Hekne, la famiglia riuscì a conservare la
proprietà del resto della tenuta. Erede dopo erede, ogni discendente
non mancò di esprimere la propria opinione su quell’avo. Pochi
erano dell’idea che avesse fatto bene a usare l’argento per le
campane, invece che per i campi e le stalle, ma consideravano
l’accaduto un ammonimento sempre valido su come la fatica sia più
sopportabile del dolore. Ogni domenica la fattoria veniva raggiunta
da un suono capace di lenire affanni e stanchezza, generato da
quelle che Eirik chiamava le campane delle figlie, un’abitudine e un
diritto che si spensero con lui.
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