Il processo imperfetto -La verità sul caso Cogne- Luciano Garofano

SINTESI DEL LIBRO:
L'elicottero volteggia a bassa quota sopra i tetti della frazione di
Montroz, case basse costruite a mezza costa. È il 30 gennaio 2002:
fa freddo, la temperatura è sotto zero, il cielo coperto. Attraverso le
vetrine del bar Liconi, giù a valle, i clienti scrutano il cielo incuriositi.
Sono abituati al passaggio dei mezzi della Protezione Civile: il Gran
Paradiso domina la valle e non accade di rado che ci sia qualche
alpinista da soccorrere. Però stavolta c'è qualcosa di insolito. Nel bar
qualcuno commenta e probabilmente, da dietro il bancone, la
proprietaria conferma le perplessità: che in effetti è troppo presto
perché si tratti di un incidente ad alta quota. Di queste cose è
abbastanza esperta: suo marito è il presidente delle funivie locali.
«Alle 8:40 nessun alpinista può essere già salito fino alle cascate
di ghiaccio. E poi comunque l'elicottero è troppo vicino.» Lancia uno
sguardo verso il pendio di fronte, oltre le vetrate, mentre ripone un
bicchiere. «Dev'essere successo qualcos'altro.» Per sapere che ore
sono, la signora non ha nemmeno bisogno di guardare l'orologio: in
un paese così piccolo sono le abitudini degli avventori a scandire il
tempo. Gino, detto Fuffi (il Freddo) è già venuto a bere il suo solito
caffè: tutte le mattine scende per la strada comunale dalla frazione di
Gimillan; alle 8:30 entra, ordina un espresso, lo beve velocemente,
saluta tutti e torna su. La strada che percorre passa per proprio per
Montroz. Ci fosse ancora Gino, nel bar, si potrebbe chiedere a lui;
ma Fuffì è preciso come uno svizzero e a quest'ora è già rientrato.
La porta si apre e tutti si girano a vedere chi entra: è Nella, la
proprietaria del negozio di articoli sportivi. Forse lei sa qualcosa.
«A Montroz c'era lo scuolabus vuoto» dice. «Era abbandonato
con i fanali accesi e la porta aperta.» Si è fermata e ha chiesto ai
passanti: le hanno detto che un bambino si è ferito alla testa, uno di
quelli che abitano lì nella frazione. È per lui che è venuto l'elicottero.
Ma non riescono a farlo atterrare.
Il problema è che la casa da cui hanno chiamato i soccorsi sta su
un pendio: spazio non ce n'è. Il mezzo prova a scendere sullo
spiazzo antistante la villetta: si abbassa e solleva un polverone, ma
poi la manovra non riesce e deve riprendere quota. Bisogna trovare
una soluzione. Per questo i soccorritori si sono messi in contatto con
Elmo Glarey. Elmo fa molti mestieri: al mattino fa generalmente il
giro basso del paese dalla parte di Épinel con lo scuolabus del
comune; ma è anche guida alpina e capo della stazione locale del
Soccorso Alpino Valdostano. Lo hanno chiamato al cellulare per
chiedergli di aiutare l'elicottero ad atterrare e così ha finito
rapidamente il giro, è tornato a Montroz, ha lasciato lo scuolabus ed
è corso verso la piazza della chiesa, dove il mezzo è finalmente
riuscito a toccare terra. Elmo è salito a bordo e ora sta dando
indicazioni al pilota, avvicinandolo alla casa dove c'è la persona che
sta male. Quando ha chiesto alla centrale informazioni sul ferito, gli
hanno risposto che si tratta di un bambino molto piccolo: Samuele
Lorenzi. Elmo conosce bene la famiglia.
Dall'elicottero, il dottor Iannizzi e un altro uomo dell'elisoccorso
guardano verso il basso con apprensione: l'atterraggio non è facile,
Elmo però è in grado di dare indicazioni precise. Il medico ha
un'espressione concentrata, ma la tensione è normale in queste
circostanze. È partito dalla centrale di Aosta dov'era di turno; la
scheda che gli ha consegnato l'operatrice del centralino gli ha
anticipato come sempre quello che si troverà davanti. «Il piccolo
vomita sangue» ha detto la madre al telefono, perciò l'operatrice non
ha avuto esitazioni nello scrivere «ematemesi». Dal tono della voce,
la donna sembrava molto lucida, nonostante la situazione
allarmante.
Il mezzo riesce a posarsi su uno spiazzo, una cinquantina di
metri a monte della casa dei Lorenzi. Appena possono i tre si
precipitano fuori. Elmo è in testa e li guida veloce verso l'abitazione,
tagliando per il pendio sull'erba intatta. Iannizzi ha con sé solo la
borsa di primo soccorso: ha lasciato la barella e lo zaino della
respirazione a bordo perché, se la diagnosi della centralinista è
esatta, il caso è preoccupante ma non grave. Quando sono
sull'ultimo tratto del pendio, scorgono varie persone davanti alla
casa: alcuni uomini e tre donne, di cui una vestita di scuro da capo a
piedi, immobile. C'è una coperta stesa a terra, probabilmente sotto di
essa c'è il bambino. Iannizzi affretta il passo e lo raggiunge: è
adagiato su un cuscino. Si fa avanti una delle tre: è la dottoressa
Ada Satragni e dice di aver prestato i primi soccorsi. In effetti sulla
fronte di Samuele c'è una vistosa fasciatura, che tampona una
fuoriuscita di sangue. La dottoressa la solleva. Iannizzi rimane
allibito: sul capo del piccolo si apre uno squarcio enorme, la ferita è
gravissima. Dai bordi netti dell'enorme buco irregolare sulla testa del
bambino escono sangue e materia cerebrale. Non c'entra nulla con
quello che ha detto la centralinista: questo bambino non ha mai
vomitato sangue. Ha la testa sfondata.
Iannizzi alza lo sguardo incredulo verso la dottoressa: vorrebbe
chiedere perché, quando hanno chiamato l'elisoccorso, non hanno
detto come stavano le cose. Ma tempo per le chiacchiere non ce n'è:
Samuele respira automaticamente ed è già entrato in coma,
constata il medico. La situazione è molto più grave del previsto.
«Mi servono subito lo zaino e la barella. Vai a prenderli, corri!»
dice al suo assistente, mentre intuba il bambino. È incerto: vorrebbe
domandare cos'è successo, com'è che il bambino si è procurato una
ferita del genere. Sembra che qualcuno lo abbia colpito e anche
violentemente, ma la madre non parla. Vestita interamente di scuro,
è lì accanto, inerte: non stacca gli occhi dal figlio, ma è come se non
riuscisse a fare nessun movimento, inebetita e incredula. Si fa di
nuovo avanti la Satragni: «Sono corsa subito perché mi ha chiamato
la mamma al telefono. Abito qui vicino, sono il medico di famiglia»
spiega. «Il bambino era nella camera da letto dei genitori.» Iannizzi
lascia per un istante il piccolo alle cure del suo assistente ed entra in
casa: vuole capire. La scena che si trova davanti una volta in
camera è impressionante: sulla parte sinistra del letto, tra il cuscino
e il lenzuolo, si allarga un'enorme macchia rossa. Accanto, poggiata
sul piumone rivoltato di lato, c'è una bacinella di plastica viola, con
dentro acqua macchiata di sangue. Dev'essere quella adoperata
dalla dottoressa durante le prime manovre di soccorso. Alzando lo
sguardo oltre la testiera del letto vede piccoli schizzi di sangue
ovunque: su tutta la parete fino al soffitto, sul piumone e persino sul
muro di destra e sull'armadio ai piedi del letto. In quell'istante
capisce che non può essere stato un incidente: il bambino è stato
aggredito con furia impressionante.
Iannizzi esce dalla stanza e torna all'esterno: «Qualcuno ha
chiamato i Carabinieri?» chiede.
Nessuno: non la madre, non la dottoressa. Nessuno dei presenti
ha pensato di farlo. Elmo è sorpreso dalla domanda, ma prende
immediatamente il cellulare e compone il 112. Alle 9:06 alla stazione
dei Carabinieri di Cogne arriva la sua richiesta d'intervento.
Il medico, intanto, si china di nuovo sul bambino: ascolta
attentamente il battito del cuore, cerca segni di vita. Nessuna
reazione. Con la mano, allora, esplora la fronte: il viso è stato
risparmiato, forse per un gesto di pietà, ma tra i capelli, appena
sopra gli occhi e sulle regioni laterali è avvenuto uno scempio. I colpi
sono stati tanti e inferti con violenza. Con l'attrezzatura dello zaino,
tenta di facilitare la respirazione del piccolo, ma le sue condizioni
sono disperate. Iannizzi chiama la centrale dell'Emergenza Sanitaria
e chiede di fargli trovare un'unità di rianimazione all'aeroporto: il
trasporto in ospedale dev'essere immediato. Samuele viene
adagiato sulla barella e portato velocemente all'elicottero. Il padre
giunge appena in tempo per tenergli qualche momento la mano.
Il maresciallo Gemignani sta arrivando dalla stazione di Cogne
con il fuoristrada di servizio proprio mentre il mezzo decolla, alle
9:15, in direzione di Aosta. Cerca un'abitazione, ma è un po'
disorientato. Per strada vede un uomo a piedi: è Elmo che sta
scendendo a recuperare lo scuolabus lasciato incustodito a Montroz.
Il maresciallo accosta per avere informazioni: Glarey gli indica una
casa distante alcune decine di metri, racconta rapidamente quello
che ha visto, poi i due si salutano e l'uomo riprende il cammino.
Gemignani parcheggia poco dopo sul piazzaletto asfaltato
davanti a casa Lorenzi: ci sono ancora alcune persone, anche i
genitori del bambino, ma il maresciallo non si occupa subito di loro.
Si fa indicare, invece, la porta-finestra che affaccia sulla vallata e da
direttamente sulla camera da letto. Capisce immediatamente: si
trova davanti alla scena di un crimine. Afferra il telefono e chiama la
piccola stazione dell'Arma dalla quale è appena partito per chiedere
rinforzi. Gli dicono che manderanno subito tre uomini. La telefonata
successiva Gemignani la fa alla centrale operativa del comando
territoriale di Aosta: deve informarli del sopralluogo in corso.
L'indagine è iniziata.
Poco dopo un'altra vettura si ferma davanti alla casa: è l'auto
privata di uno dei tre carabinieri chiamati dal maresciallo.
Gemignani, in costante contatto con la centrale di Aosta, comincia a
dar loro le prime disposizioni: due uomini faranno un primo
sopralluogo all'interno, mentre Casasole si occuperà dell'esterno.
Quest'ultimo si avvia subito verso il pendio dietro l'edificio: ha l'ordine
di risalire l'erta fino al sentiero per Gimillan, la frazione più a monte.
Sia lui sia i due che rientrano in casa con Gemignani hanno il
compito di cercare qualsiasi cosa sembri un «possibile oggetto
d'aggressione», l'arma del delitto.
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