Il nano e la bambola – Heinrich Boll

SINTESI DEL LIBRO:
Chi non avesse mai letto altro di Heinrich Böll potrebbe, dalla
sola lettura di questa raccolta di racconti, farsene un’idea completa,
tanto vi emergono i temi cari allo scrittore di Colonia, Premio Nobel
1972: il disgusto per la guerra e il nazismo, il senso della fame e
della solitudine, la solidarietà umana vissuta in una gamma che va
dal piú acuto assillo sociale a un misticismo cristiano sentito in modo
tutto creaturale, la satira di un perbenismo e di un benessere dietro i
quali si annidano i mostri dell’intolleranza e dello sfruttamento,
l’amore tra uomo e donna, la buffoneria anarcoide quale rifugio
ultimo in un mondo terribilmente serioso, il rispetto profondo della
piccola e povera gente, un moralismo senza tavole legali ma
insonne nel verificare le proprie azioni e i loro veri moventi.
Di Heinrich Böll (1917-85) Einaudi ha pubblicato i romanzi Foto di
gruppo con signora, L’onore perduto di Katharina Blum, Assedio
preventivo, Il legato, Donne con paesaggio fluviale; un volume di
memorie autobiografiche, Che cosa faremo di questo ragazzo?; le
raccolte di racconti Vai troppo spesso a Heidelberg e La ferita; un
testo teatrale, Un sorso di terra; le poesie di La mia musa; gli scritti
di politica e letteratura Rosa e dinamite e Rapporti sui sentimenti
politici della nazione.
L’avventura
(1950)
Fink si avviò verso l’ingresso laterale della chiesa. A destra e a
sinistra dell’asfalto crepato c’erano, davanti alle case, minuscoli
giardinetti triangolari, recinti da nere cancellate di ferro: una terra
acida e nerastra, e due siepi di bosso le cui foglie sembravano dure
e vizze come il cuoio. Spinse con la spalla una porta dall’imbottitura
marrone e si trovò in una bussola che odorava di muffa, dove gli
toccò spingere un’altra porta imbottita. Stavolta la urtò col pugno
chiuso e, prima di entrare in chiesa, lesse di sfuggita un avviso
esposto su una tavola di compensato: «Terz’ordine francescano.
Comunicazioni…»
Nella chiesa stagnava una penombra verdastra, e Fink scoprí su
una parete pitturata ad olio, di cui non si riusciva a distinguere il
colore, un luminoso cartello bianco con su una mano nera che
indicava verticalmente in basso. Al di sopra nell’indice, molto rigido e
troppo lungo, c’era scritto: «Campanelli per i confessori». Sotto, una
serie di pulsanti di avorio scurito entro dischi di legno bruno, e le
targhette dei nomi. Lui non si mise neanche a decifrarli ma sonò alla
cieca uno qualunque dei campanelli, con la sensazione di fare
qualcosa di irrevocabile, di definitivo. Poi tese l’orecchio… ma non
udí nulla.
Immerse le dita in un’acquasantiera di gesso a forma di
conchiglia, dipinta di rosa, che nella penombra faceva pensare a un
gran palato artificiale e ch’era qua e là scheggiata. Si segnò
lentamente e si addentrò nella navata centrale. Su ogni lato vide due
confessionali scuri, con le tendine rossicce tirate, e a un tratto notò
che le volte di stucco tra i pilastri gotici erano crollate: il brutto muro
di mattoni giallicci era nudo e in qualche modo ricordava un
antiquato stabilimento balneare. Il vecchio ingresso sul davanti era
stato murato con pietre appena digrossate, in mezzo all’opera
muraria si vedeva, malamente incastrata, la vecchia cornice
sghemba di una finestra dalla vernice bianca scrostata.
Fink s’inginocchiò nella navata centrale e tentò di pregare, ma al
di sopra delle sue mani giunte si sentiva come costretto ad
osservare i quattro confessionali, a fissare insistentemente nel buio
per non mancare il prete, che poteva spuntare chissà dove da un
momento all’altro. Probabilmente sarebbe venuto dalla sacristia, là
davanti, dove Fink vedeva nella penombra una campanella di ottone,
col suo cordone di velluto, accanto al lume perpetuo. Verso il centro
la chiesa si faceva piú chiara, e ora Fink scoprí che tutta la navata
centrale era stata rinnovata; i muri distrutti, dentellati, reggevano
un’armatura provvisoria, molto piatta, dalle tavole vecchie e sporche
- diverse tavole erano scure, del colore di un pavimento -, e i santi
lungo le colonne erano tutti senza testa, una pietosa, impressionante
doppia spalliera di strane figure di gesso cui avevano abbattuto le
teste e strappato di mano i loro simboli, forme monche e scure che
parevano implorarlo con le loro mani mutile.
Fink cercò di risvegliare in se stesso il pentimento e i buoni
propositi, ma non ci riuscí, era troppo inquieto; dentro di lui si
scatenò un guazzabuglio di invocazioni frammentarie e
supplichevoli, interrotte da ricordi e dal desiderio sempre rinnovato di
liquidare al piú presto quella faccenda e di ripartire, di lasciare
quanto prima quella città.
Si rendeva conto che ciò che voleva confessare cominciava già a
diventare un ricordo e ad alonarsi, si innalzava pian piano
dall’uniformità della sua faticosa, sudicia esistenza quotidiana, e
pareva che un giorno, e forse presto, avrebbe aleggiato sopra di lui:
una bella avventura peccaminosa, mentre in realtà - anche questo lo
sapeva - egli aveva osservato solo per una sorta di cortesia quelle
regole del giuoco di cui lo colmavano di spavento la schiacciante
ovvietà e la serietà mortale. Già prima lo aveva colto l’avversione,
ma era stato ugualmente al gioco dando a credere a se stesso che
quello era solo un atto meccanico, un fatto puramente naturale;
intanto però sapeva, nel piú intimo di se stesso, che la freccia
tremava già sull’arco, che il colpo sarebbe partito e lo avrebbe
toccato infallibilmente in quel bersaglio invisibile che non sapeva
definire se non con la parola anima.
Sospirò e cominciò a diventare impaziente; dentro di lui le due
immagini - quella reale e quella che pian piano cominciava a
indorarsi - si affiancavano, si mescolavano, si fondevano a tratti l’una
nell’altra, e i suoi occhi, in quell’attesa torturante, si appuntavano,
oltre le due file dei santi senza testa, sul cordone di velluto che
pendeva accanto alla campanella.
Pensò che forse la campanella non funzionava e che il padre di
cui gli era parso di nessuna importanza leggere il nome poteva non
esserci. Lui non conosceva questo tipo di confessioni, in passato ne
aveva riso. Ma quando si accinse ad alzarsi per tornare un’altra volta
ai campanelli, vide nell’immagine immobile della chiesa deserta una
figura scura che usciva dalla sacristia, s’inginocchiava davanti
all’altare e si avviava verso i confessionali di destra. Osservò il frate
con estrema attenzione: era alto e slanciato, e la corona di capelli
lasciatigli dalla tonsura era fitta e nera.
Fink cercò di eccitarsi ancora in fretta al pentimento e ai buoni
propositi, recitò meccanicamente dentro di sé la formula che sapeva
ormai a memoria da vent’anni, e si alzò. Inciampò passando tra i
banchi; in qualche punto del pavimento a gigli bianchi e rossi ci
doveva essere una mattonella rotta. Si sorresse a un inginocchiatoio
e sentí che il frate spegneva la minuscola lampada e scostava la
tendina. Inginocchiandosi in quell’angolo odoroso di muffa, buio e
molto scomodo, e scorgendo dietro la grata quell’orecchia bianca,
sentí che il cuore gli batteva fino al collo. Era cosí eccitato che non
riusciva a parlare.
- Sia lodato Gesú Cristo, - disse una voce che pareva molto
indifferente.
Con sforzo riuscí a rispondere:- Sempre sia lodato, - poi tacque.
Il sudore gli scorreva giú per la schiena e gl’incollava la camicia
contro la pelle, da cima a fondo, spietatamente, quasi l’avessero
immersa nell’acqua. Pareva che non gli restasse spazio per
respirare.
Il sacerdote si schiarí la voce.
- Ho commesso adulterio, - balbettò Fink, e capí di aver fatto
quasi tutto ciò che poteva fare.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo