Il guerriero irlandese – Michelle Willingham

SINTESI DEL LIBRO:
Genevieve de Renalt correva a
perdifiato. I muscoli le dolevano e i
polmoni bruciavano a ogni respiro,
ma lei rifiutava di fermarsi, poiché
ogni passo la conduceva verso la
libertà. Dietro le spalle udiva
l’incalzante battito degli zoccoli di
un cavallo: Hugh la stava per
raggiungere.
Sono un’idiota, pensò. Per
riuscire nell’impresa le sarebbero
almeno occorsi un cavallo, qualche
provvista e un po’ di denaro, ma non
aveva avuto tempo per prepararsi.
Aveva intravisto la buona occasione
e l’aveva colta al volo. E anche se il
tentativo era destinato a fallire, era
valsa la pena di provare.
Non aveva altre possibilità per
scappare dal suo promesso sposo. Le
bastava pensare a Sir Hugh
Marstowe per soffrire come se la
stessero pugnalando. E dire che un
tempo lo aveva amato, mentre ora
avrebbe fatto qualunque cosa pur di
sfuggirlo.
Hugh procedeva al trotto, senza
fretta. Stava giocando con lei, come
un falco che volteggia in ampi
cerchi attorno alla preda. Era certo
di poterla catturare senza alcuno
sforzo, ma si divertiva a incuterle
paura.
Da un mese intero la teneva
sotto controllo e le imponeva un
comportamento che, a suo parere,
era adeguato a una futura moglie; e
lei si sentiva umiliata, costretta a
obbedirgli come un cane. Per giunta
tutto quello che diceva o faceva
sembrava insufficiente.
Genevieve fremette al ricordo
della violenza di Hugh ed ebbe un
nuovo impeto d’odio. Per tutti i
santi, anche se le mancavano le
forze, doveva andare via. Non
cessava di inciampare nel
sottobosco, i fianchi le dolevano e le
energie le venivano meno. Ben
presto sarebbe stata costretta a
fermarsi. Pregò Dio di concederle un
miracolo, di indicarle una via per
salvarsi da quell’incubo. Temeva
che, rimanendo al castello ancora a
lungo, si sarebbe trasformata in una
larva umana, priva di coraggio e di
vita propria.
I rovi le graffiavano le mani e si
impigliavano nel mantello. La luce
pomeridiana iniziava a calare e si
preannunciava il crepuscolo.
Genevieve tratteneva a stento
lacrime di stanchezza, districandosi
tra le spine fino a ferirsi.
«Genevieve!» la chiamò a gran
voce Hugh, facendole raggelare il
sangue. Aveva fermato il cavallo ai
margini del bosco. Lei lo vide in
lontananza ed ebbe una violenta
stretta allo stomaco.
Non tornerò indietro, si disse e
proseguì con ostinazione tra nodosi
tronchi di noce finché non ebbe
raggiunto la radura. Si arrampicò a
fatica per il pendio scivoloso e
gelato, ricadendo più volte sulle
ginocchia.
Regnava un silenzio inquietante.
Dalla cima della collina, dove era
giunta, Genevieve colse un
movimento; poi i rami secchi
rivelarono la presenza di un uomo.
Anzi, più di uno: Irlandesi
abbigliati in tinte che si
confondevano con l’ambiente.
Dietro il gruppo, ai piedi dell’altura,
un guerriero cavalcava da solo.
Indossava un mantello chiuso da una
spilla di ferro grande quanto il
palmo di una mano. Sembrava
all’erta, anche se non accennava a
brandire la spada. Era alto, con le
spalle larghe, aveva il volto coperto
da un cappuccio ed emanava un
senso di tranquilla sicurezza.
La stava osservando. Era
difficile capire se fosse un nobile o
un soldato comune, ma aveva un
portamento aristocratico. A un suo
cenno di comando, gli altri si
sparpagliarono e scomparvero dietro
un colle.
Il cuore di Genevieve batteva
forte: lo sconosciuto avrebbe potuto
abbatterla con un colpo di spada.
Tuttavia raddrizzò le spalle, lo
guardò e si incamminò lentamente
verso di lui, sebbene si ricordasse a
ogni passo che i guerrieri non
riservavano alle donne alcuna pietà.
Comunque l’Irlandese aveva un
cavallo, proprio quello che le
occorreva per fuggire lontano.
Si fissarono negli occhi. Se lei
avesse gridato, avrebbe rivelato a
Hugh la loro presenza. Le restava
ancora qualche secondo prezioso
prima di farsi acciuffare.
«Vi prego» implorò, «mi serve il
vostro aiuto.» Essendo senza fiato,
sussurrò appena domandandosi se
l’uomo l’avesse udita. Notò sulla
spilla un motivo celtico e ripeté la
richiesta in gaelico. Lui cambiò
posizione in sella e, dopo un istante
che parve durare in eterno, fece
voltare il cavallo e sparì tra gli alberi
insieme alle speranze di Genevieve.
Bevan MacEgan si maledì per la
propria debolezza.
Gli erano bastate poche parole
per identificare la donna come
Normanna e provare il solito odio,
mescolato questa volta al
sorprendente impulso di offrirle
aiuto.
La figura snella, con il volto
impaurito e i lunghi capelli neri,
aveva rievocato all’istante un incubo
che lui cercava di scordare da due
lunghi anni. Chiuse gli occhi nel
tentativo di scacciare la tremenda
visione.
L’aveva vista correre prima
ancora di impartire ai suoi uomini
l’ordine di nascondersi. Era evidente
che l’inseguitore non intendeva
ucciderla, poiché avrebbe già avuto
la possibilità di farlo; il cavaliere
normanno la voleva catturare.
E lui, allontanandosi, aveva
permesso che ciò accadesse.
Era stato costretto a scegliere tra
la sicurezza del suo drappello e
quella di una donzella che non
conosceva neppure. E, sebbene fosse
certo di avere preso la decisione
migliore, il suo senso dell’onore era
turbato. Aveva il dovere di
proteggere le donne, non di
abbandonarle al pericolo.
Tuttavia se fosse intervenuto
avrebbe messo a repentaglio il piano
di azione. Non poteva rischiare la
vita dei suoi soldati rivelando la loro
posizione. La riuscita dell’attacco
dipendeva in buona parte
dall’elemento sorpresa ed era
fondamentale stare all’erta in attesa
del momento opportuno.
«Voglio che cinque uomini
vengano con me nella fortezza»
comandò nonostante tutto. «Gli altri,
nel frattempo, circonderanno la
palizzata esterna. Al tramonto
accendete i fuochi.
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