Il dio dei gatti è immortale – Paolo Bontempo

SINTESI DEL LIBRO:
«Scappate figaaaaaaa.»
Aco uscì dalla chiesa di corsa zoppicando male e lanciando in avanti lo skate che teneva sotto
braccio. «Madonna che male, ho sbattuto contro l’acqua santa.»
Gli altri tre lo aspettavano fuori sui motorini. Accesero il motore e sgasarono. Aco saltò sullo skate ma
rimase bloccato.
«Che cazzo guardi bel?» gli sbraitò Mada.
«Oooooh scèc, ma cosa stracazzo fai?» gli fece eco Podo poco dopo, dimenandosi sul suo booster
arancione nuovo nuovo. Nuovo per modo di dire, in realtà era un catorcio di seconda mano.
Ma Aco non si muoveva. Si era messo a guardare uno degli alberi che stavano davanti alla chiesa.
Quei fiori dai petali violetti, di un colore intenso, lo avevano incantato.
«Dai, non facciamoci beccare da quello sbirro del prete», urlò Leddu sfoderando il suono del suo
Phantom 12 truccato, preoccupato che la gente si riversasse fuori dalla chiesa in cerca dei colpevoli.
Aco distolse lo sguardo e si girò verso gli amici.
«Niente raga, scusate. Tanto arrivo prima io.» Ed era vero. Anche se Aco era l’unico senza motorino,
con lo skate era una specie di razzo. E quando proprio non aveva voglia di sgambare, si attaccava
senza problemi alla sella di Leddu, che tanto a lui da quello skate non lo buttava giù nessuno.
«Bona, si vola e ciao», comandò Mada, che era il capo, quindi c’era poco da obiettare. I ragazzi
diedero gas, Aco si spinse sullo skate e la fuga partì definitivamente in direzione dello skate park.
Mentre i compagni sfrecciavano facendo gli scemi sulle moto, Aco si girò un secondo ancora verso
l’albero, si godette un ultimo respiro di quel violetto e poi fece un boneless che avrebbe mandato in
delirio persino il campione del mondo di skate. Sparì dietro l’angolo della strada e, come gli succedeva
sempre, di quel dolore cane che aveva sentito sfracellandosi contro l’acquasantiera si era già
dimenticato.
2
QUELLA mattina non c’era nessuno in giro per strada. Erano tutti al lavoro o a scuola. Ma loro, i 24/129
gang, no. Loro l’ultima settimana di lezioni la balzavano diretti, ogni anno. Era una specie di legge non
scritta. Così come era una legge non scritta che allo skate park fossero i padroni. Ed era giusto così,
che quello skate park incastrato tra i palazzoni se l’erano conquistato col casino spietato delle loro
marmitte, con tutte le mattine e i pomeriggi e le sere e le notti di sbraso, con le tag sparse dovunque
sulle rampe e sulle panchine. 24/129 gang, dove 24129 era il CAP di Longuelo, quel quartiere di
Bergamo che era il loro quartiere, e non solo perché ci abitavano.
Longuelo era il centro del mondo, e lo skate park era il centro di Longuelo. Da lì i 24/129 gang
avrebbero sparso la loro fama ovunque. Dai palazzoni popolari dove abitavano le famiglie che non
funzionavano, i vecchi e le bestemmie, fino alla zona rich-and-bitch dove le famiglie che funzionavano si
godevano ville, macchinone e piscine. Sì, i 24/129 gang si sarebbero fatti conoscere col rimbombo dei
petardi che riempivano i loro zaini.
«Oh ma non ho capito perché ci sono dovuto entrare io in chiesa», fece Aco appena tutti si
radunarono in cerchio nel piccolo praticello dello skate park, sotto la loro magnolia.
«Pota perché sei negro e al prete gli piacciono i negri, quindi se ti beccavano non chiamavano la
polizia», gli rispose Leddu sfottendo.
«Giusto. E poi perché ti si vede di meno», interruppe Podo, lasciando come sempre il silenzio dopo
ogni suo intervento. «Cioè, ti si vede meno perché sei negro, capito?» puntualizzò, assalito dal dubbio
di non essere stato chiaro. Premesso che la chiesa era illuminata, Aco, che era marocchino, non era
certo così scuro da poter giustificare battute di quel tipo.
«Ma mochela Podo che sei daltonico», rispose Aco ridendo. Marocchino o no, era quello che parlava
meglio il dialetto bergamasco. E poi non gli interessava il perché avesse dovuto metterlo lui il petardo,
non aveva mai avuto paura di niente, lui. Senza contare che era stato Mada a chiederglielo, e se Mada
decideva una cosa, Aco tendenzialmente smetteva di farsi domande. Che a quattordici anni ormai sei
grande e devi aver deciso a cosa appartieni. Per lui la sua famiglia era la gang e la gang funzionava
così: fiducia e lealtà assoluta, soprattutto per Mada, che era quello che li aveva messi insieme.
Mada si slacciò la sua scodella con lo stemma dell’Atalanta e si avvicinò ad Aco. Tirò fuori dalla tasca
un paio di banconote da cinque euro e gliele diede in mano.
«Toh, te le sei meritate. Comunque ho scelto te perché con la scusa del tuo mezzo Ramadan mi
resisti ancora pochi giorni e poi diventi uno zombie.» Risero tutti perché Aco l’aveva menata che
quell’anno voleva farlo il Ramadan, che se anche ci credeva così così, per lui era una questione di
orgoglio. Salvo poi inventarsi una serie di regole personali, tipo che sigarette e canne non rientravano
nel digiuno.
«E i soldi?» chiese Aco.
«Così stasera appena tramonta, ti spari le tue Kinder Fetta al Latte.» E Mada si accese una Marlboro
Gold.
«Bel, sei una puttana tentatrice, non so se resisto fino a stasera.» Aco ci smattava per le Kinder Fetta
al Latte.
«Ma scusa», esordì Podo, «anche io ho fame.»
«Ma tu hai sempre fame, è diverso», gli disse Aco e Podo si imbestialì a caso.
«Io sono ciccione. Non ci pensi ai ciccioni, Mada? Abbiamo dei diritti anche noi.»
«No, tu al massimo ti sfami con le stizze.»
«Ma cosa c’entrano le stizze? Mica mi riempiono.» La situazione stava diventando sempre più
nonsense e se c’era una cosa che Leddu odiava erano le chiacchiere inutili. Lui, col suo silenzio amaro
e il suo falso sorriso da sberle in faccia, non ne poteva più.
«Podo, trovati una religione che ti faccia stare zitto per un mese porca merda.» E poi se ne andò
seccato. Podo ci rimase male, perché Leddu era stra cattivo, ma con lui in genere ci andava più
leggero. Facevano un po’ coppia di solito, anche se facevano ridere. Podo ciccione e logorroico, Leddu
scheletrico e tagliente.
Ma quel giorno Leddu era sverso. Salì sul suo Phantom 12 e accese il motore.
«Ci vediamo qui nei prossimi giorni», disse Mada guardando Aco e Podo. «Io vado con Leddu, che
sicuro è un periodo che c’ha cazzi in casa.» E se ne andò lasciandoli soli.
Aco guardò Mada salire sul suo leggendario Liberty e da lì allungare a Leddu una sigaretta. Leddu se
la accese con quella che Mada stava per finire. Fumarono un po’ insieme. Poi, senza guardarsi,
sganciarono entrambi il cavalletto e sgommarono via. Aco si chiese per un attimo dove sarebbero
andati quei due, i più grandi del gruppo, i 24/129 gang originari.
Stava per domandare a Podo cosa ne pensasse lui, ma quando si voltò, lo vide seduto per terra con
la maglietta alzata, intento a contare i propri rotoloni di ciccia. E Aco scoppiò a ridere che rischiava di
morire lì.
«Oh va beh, cosa c’è da ridere?»
«Niente, niente.» Ma Aco quell’immagine non se la sarebbe mai tolta dalla testa.
«Oh Aco, tu cosa fai ora?»
«Mi sa che vado dalla Cate.»
«Dalla Cate-dei-colli? Ma non vi siete tipo mollati?»
«Sì, già dieci volte. Ma stavolta ho una sensazione positiva. Prima…» E Aco stava per raccontare del
fatto dell’albero, dei fiori violetti, e di quell’idea che gli era venuta di andare a trovare la Cate. Ma Podo
non avrebbe capito sicuramente, quindi pensò di non spiegargli niente e lasciò la frase a metà.
«Secondo me te la sposi… o te la scopi… o te la spochi. Sto sbrasando bel.» E quando Podo entrava
in quei trip di battute c’era una sola via di fuga, che era appunto la fuga.
«Ciao Podo», fece Aco alzandosi da terra. «Fai il bravo.» E infilò di nascosto una banconota nelle
tasche dell’amico, che lo guardò con la gratitudine di un bambino.
3
CATERINA Grespi, un nome una verità. Capelli castani, occhi verdi angelici, sguardo dolce. I ragazzi della
24/129 gang la chiamavano la Cate-dei-colli, perché abitava in una villa sui colli, sopra Longuelo. Ma
Aco la conosceva da molto prima di essere un 24/129 gang, dai tempi dell’asilo. Erano stati in classe
insieme fino alle medie, e anche se non c’entravano niente l’uno con l’altra, lei e Aco erano sempre stati
inseparabili. Certo, Aco viveva nelle popolari, in un buco di appartamento con i suoi genitori, i tre fratelli
più grandi, la sorellina, e all’occorrenza qualche cugino mai visto che aveva bisogno di un tetto per un
paio di settimane. Ma questo non era mai stato un problema per i genitori di Caterina, né tanto meno
per lei, che era una tipa tutt’altro che snob. E poi Aco stesso si era sempre sforzato di essere un po’
meno sbrasato con lei.
Perché con la Cate-dei-colli Aco poteva fare una cosa che nessun altro dei suoi amici o conoscenti gli
avrebbe lasciato passare senza una clamorosa presa per il culo. A lei poteva apertamente raccontare di
quelle che lui chiamava «sensazioni». Quei momenti inspiegabili in cui gli sembrava per un attimo di
capire in profondità tutti i dettagli della realtà, di vedere le persone come erano davvero e di prevedere
in qualche modo il futuro. Tipo okei, cazzo, ho capito.
Lei era l’unica che poteva comprendere queste sensazioni. Ma nonostante la perfetta sintonia c’era
qualcosa che li teneva lontani. Non erano certo i due chilometri che separavano i palazzoni di Longuelo
dai colli di Mozzo, che rimanevano sempre due, anche se gli anni, passando veloci, sembravano
allungare la distanza. Non era il fatto che la Cate fosse diventata una ragazza del Sarpi, il liceo classico
di Bergamo, piena di nozioni e domande e fantasie e dubbi e speranze. Alla fine era sempre stata così,
fragile. E non era nemmeno la vita skate, canne e bordello di Aco, la vita in cui era normale che lui
mandasse all’ospedale i compagni di classe che lo sfottevano e che a ogni festa dichiarasse in tutta
sincerità: «Se non me ne scopo una stasera non sono contento».
A tenere lontani la Cate e Aco non erano tutte queste distanze. A tenerli lontani era la paura di quella
loro inspiegabile vicinanza. Il fatto che si perdonavano ogni errore e che si volevano bene per tutto.
Questo li spaventava entrambi. O forse erano entrambi ancora troppo piccoli per capire che quella cosa
aveva un nome semplice semplice. Una delle parole nominate invano più spesso, a parte il nome di Dio.
Amore. Sì perché la Cate e Aco si amavano ma non sapevano gestire la dimensione di un sentimento
del genere. Va bene le sensazioni, ma i sentimenti erano un’altra cosa. E quei due non sapevano bene
che farsene, né potevano scambiarsi promesse troppo durature. Ci avevano provato ma non è che
avesse mai funzionato. Perché avevano paura di farsi del male. Perché a quattordici anni il dolore è un
albero di fiori viola a cui continui a girare intorno senza riuscire ad afferrarne il senso.
E quel giorno per Aco l’albero di fiori viola fu una specie di ossessione. Lasciò Podo allo skate park e
si mise a fare un’infinità di giri in quartiere, continuando a passare di fianco alla chiesa solo per dare
un’occhiata a quel violetto. Non c’era in giro nessuno, solo i fiori.
E guardando quei fiori viola Aco ebbe una delle sue sensazioni. Ed era una sensazione molto molto
positiva, che dopo mille giri senza senso lo guidò, guarda caso, fin su in cima ai colli.
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