Il condominio di via della Notte – Maria Attanasio

SINTESI DEL LIBRO:
Come un tuono, in lontananza. Che a poco a poco si fa sempre sempre più
vicino, avvolgendo strade, palazzi e appartamenti, in uno dei quali un uomo
nervosamente si aggira aprendo e chiudendo una grossa valigia: vi infila
qualcosa – camicie, pullover, calzini – che subito dopo toglie.
Un vibrare profondo invade ogni angolo della casa.
Apre la porta d’ingresso. Nessuna animazione per le scale: l’elironda deve
essere atterrata in un isolato vicino.
«Piombano in casa. Perquisiscono! Ma ti rendi conto? – aveva gridato
fuori di sé alla moglie la prima volta che l’elicottero era sceso nel cortile del
loro condominio, mentre i vigilanti si sparpagliavano per scantinati e
appartamenti in cerca del clandestino. – Ti rendi conto!?». Appena i
vigilanti erano andati via, lei aveva ripreso pacificamente a dormire.
Anche in quel momento – pur in mezzo alle vibrazioni dell’elicottero che
squassavano il palazzo fin dalle fondamenta – dormiva. Eppure sapeva che
quella volta la sua partenza era definitiva.
Cercata, voluta da mesi.
A farlo decidere, dopo tanti ripensamenti, era stata l’irruzione in aula –
mentre faceva lezione – dei volontari della ronda universitaria, che, insieme
alla polizia, avevano circondato gli studenti stranieri. Inutile ogni resistenza.
«Vuole peggiorare le cose? – gli aveva detto animosamente l’uomo in
divisa che sembrava il capo. – Dia l’esempio, invece!».
Non trovarono niente, ma li portarono via lo stesso.
I giorni seguenti non li ritrovò più in aula; e nessuno ne sapeva niente.
Con una delegazione di studenti era andato lui stesso al comando di
polizia da dove era partita l’irruzione, energicamente chiedendo giustizia e
spiegazioni.
«Né intolleranza, né razzismo: un semplice controllo su segnalazione», lo
interruppe il dirigente, informandolo che quegli studenti erano stati
immediatamente rimpatriati per sospetto spaccio, e dunque, per grave
attentato alla salute pubblica. Era nel loro DNA l’attitudine a delinquere, fu il
conclusivo commento del Commissario che rispettosamente lo salutò,
rispettosamente consigliandogli giudizio e cautela nel fare e nel pubblico
dire. «Faccia attenzione: non vorremmo che si trovasse nei guai... sappiamo
del suo passato...» era stato il sibillino congedo.
Per giorni ansiosamente si era chiesto a quali passati coinvolgimenti si
riferisse il Commissario. Irriducibile e intransigente libertario, sì, sempre.
Anche adesso – che tutti negavano e rinnegavano di esserlo stati –
pubblicamente lo rivendicava. Ma nulla di illegale. Né allora né mai. Sentiva
un’inquietudine crescente, un senso d’asfissia bloccargli passo, parola,
respiro.
Ad un tratto smise di cercare. Capì.
Insinuare in ognuno il sospetto: in nome di un’inesistente colpa ridurre al
silenzio, intimidire; questa la forza del sistema che – legge dopo legge,
dossier dopo dossier – si stava instaurando a Leviana, tra l’indifferenza
generale e un coriaceo adattamento all’esistente. Trovando consenso a
destra e a sinistra, tra balordi e intellettuali. Che minimizzavano. Non
vedevano. E lui, un superstite.
Basta. Doveva andare via. «Prima che sia troppo tardi – aveva detto alla
moglie, enumerandole eventi e provvedimenti, che se presi singolarmente
potevano non apparire significanti, ma messi uno accanto all’altro,
indicavano una precisa direzione. – Vedrai, se passerà la proposta di leggi
speciali sull’Emergenza, chiuderanno le frontiere. E non sarà più possibile.
Siamo già in un regime. Non te ne accorgi?».
No, non se ne accorgeva, anche lei, come tanti, giudicando innocua
goliardia il gioco interattivo che la sera andava in onda in una tivù locale:
una sorta di battaglia navale in cui vinceva chi riusciva a gasare più rom.
Non mancò più a nessun convegno. Lontano da Leviana godeva del suo
passo, del suo pensare, liberato da autocensure e sottomissioni.
Durante un soggiorno di studi in un’università dell’emisfero meridionale
ne aveva parlato con un collega «Non c’è problema. Qui saresti ben accolto.
Abbiamo bisogno di ricercatori come te». L’occasione era venuta con il
convegno all’estero, a cui si accingeva a partecipare. Non sarebbe più
tornato indietro. Da lì avrebbe raggiunto il collega, che aveva già preparato
tutto per accoglierlo.
Era tornato ad insistere con la moglie. «Una nuova vita. Lontano da qui:
tutti e tre insieme».
Il suo rifiuto era stato netto. «Hai perso il senso della realtà: vedi dittature
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2
L’uomo continuò ad aggirarsi per le stanze dell’appartamento, aprendo e
chiudendo cassetti e valigie; ne riaprì deciso una, il cui contenuto buttò alla
rinfusa sul divano. La biancheria poteva ricomprarla dopo. Meglio qualche
libro.
Dalla libreria ne scelse alcuni, che era certo di non poter più trovare nella
città dell’altro capo del mondo dove era diretto. Guardò con malinconia
quelli che restavano; ne tirò fuori un ultimo, smilzo e di piccolo formato: il
primo regalo che le aveva fatto. Gliene aveva consigliato la lettura, citandole
una frase di quel libro: L’amore è la libertà di dire cose stupide.
La stupidità della leggerezza amorosa: dell’allegria immotivata, della
consonante convergenza di un pensiero o di una canzone. Quell’eccitante
leggerezza, che da tempo non c’era più tra loro.
Un turbine di amici, viaggi, interessi, era stata nei primi anni la loro vita
in comune, in cui con gratitudine si era fatto coinvolgere, trascinato in mille
esperienze, che da solo non avrebbe mai fatto. E lei, sempre la fascinosa e
volubile protagonista. Una fame di vita mai venuta meno.
Riposò il libro e tutta la sua vita precedente sullo scaffale.
Era ancora lunga la notte, e lontana l’ora della partenza.
Andò in cucina e preparò la caffettiera. Con un grande tazzone fumante
in mano andò a sedersi sulla poltroncina ai piedi del letto, restando a lungo
a guardare la moglie, che si era girata su un fianco; il piccolo solco sulla
fronte, in mezzo agli occhi, le dava un’espressione insieme infantile e
ostinata. Il suo segno di riconoscimento: era stata la prima cosa che aveva
notato sul suo volto, trovandosela accanto mentre fuggiva dalla piazza
invasa da fumo e spari. «Vieni via, cretina» le aveva gridato trascinandola
quasi di peso. Si erano dispersi tra i vicoli, infilandosi in un portone aperto
che precipitosamente si chiusero alle spalle, in attesa che tutto finisse. «Stai
tremando» le aveva detto circondandole le spalle.
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