Il ballo degli invisibili – Silvano Agosti

SINTESI DEL LIBRO:
Cari amici, Avrei voluto intitolare questo libro "92 romanzi brevi", in
quanto ognuno di questi novantadue scritti contiene gli elementi
potenziali per la stesura di un romanzo.
Intendo infatti per "romanzo", uno scritto capace di rivelare e
comunicare una visione del mondo, mentre il racconto non è che la
narrazione di un evento.
Questi 92 "romanzi brevi" dunque, nascono da una intensa e a
volte spietata osservazione degli esseri umani che mi circondano, e
dalla scelta di modalità narrative che potrebbero essere quelle di un
bimbo di quattro anni.
Il linguaggio è ridotto all'essenziale e dai fatti trasudano elementi
di pensiero, ma il pensiero di chi scrive non si sovrappone, né dilaga
mai a ricoprire, e quindi ad affievolire, ciò che accade nella
narrazione.
Ognuno di questi novanta personaggi, dalla figlia del Papa ai
vecchi pensionati, dal bimbo incontrato ogni giorno sulle scale,
all'uomo sulla cinquantina che si inventa una figlia, dai Curdi al
Cinese che riassume in due parole la sconfinata saggezza di Confucio,
tutti i personaggi di questo libro, nascono da un mare di amore nel
quale ho immerso ogni persona incontrata sul mio cammino.
Amare è il gioco più inesauribile che la vita propone e questo
gioco sacro ha consentito ai miei personaggi di prendere vita, forse
per poco, forse per sempre.
Silvano Agosti.
1.
Il sarto delle anime
"Non puoi immaginare l'emozione che provo, ogni volta che taglio
una stoffa".
Raul, il vecchio sarto del quartiere, ha il negozio in via Leone IV e
un manichino nuovissimo fa la guardia all'ingresso.
Del resto da una diecina d'anni la sua bottega è sempre vuota, ma
lui ogni giorno alle otto e trenta in punto apre e la tiene
impeccabilmente ordinata e pulita.
È un privilegio raro farmi assistere al taglio di un abito.
Le sue mani si muovono con disinvoltura e ricordano l'abilità dei
chirurghi.
"Per chi è questo vestito?" "Ah, questo è per me." "È proprio una
passione la tua, si vede da come tocchi gli strumenti e dal tuo modo
di sfiorare la stoffa come se fosse materia viva." A questo punto Raul,
il sarto, mi racconta la sua storia.
"Devi sapere che all'età di sette anni ho fatto un sogno.
Mi trovavo seduto su un albero, così alto che sfiorava il cielo. Una
voce veniva di lontano e diceva: Se vuoi conoscere il mistero della
vita devi misurare il mondo.
Pian piano mi sono lasciato andare di ramo in ramo, fermandomi
proprio di fronte a casa mia, con la stessa leggerezza con cui cadono
le foglie.
Poi ho tolto di tasca il metro pieghevole e ho incominciato a
misurare ogni cosa, con cura, cercando di non sbagliare.
Misuravo tutto.
Ormai a prima vista potevo dire la lunghezza di qualsiasi cosa.
Nel sogno ero felice.
Ma quando mi sono svegliato, ho incontrato l'assillo delle ombre.
Tutto quello che avevo misurato in sogno, nella realtà aveva
un'ombra e ho scoperto che le ombre si allungano e accorciano in
relazione alla luce.
Lo sconforto era grande.
Poi ho capito che ogni cosa va misurata quando il sole è
immobile, al centro dell'azzurro. In quel momento tutte le cose
hanno una sola ombra.
Da allora non ho desiderato altro che fare il sarto e per tutta la
vita ho tagliato e cucito.
Adesso ti posso dire il vero segreto.
La mia abilità, per via del sogno fatto da bambino, è che posso
confezionare qualsiasi abito, senza prendere le misure. Mi limito a
guardare le persone negli occhi.
Gli abiti che vedi per le strade, servono solo a nascondere i corpi."
"E i tuoi?" "I miei rivelano l'anima." Una luce di disperazione appare
nel suo sguardo.
"Ecco perché'" ho pensato: "la sua bottega è sempre vuota." "Ho
vestito re e regine... Attori famosi e grandi artisti..." Il sarto getta uno
sguardo al negozio deserto e si abbandona a un pianto irrefrenabile.
Lo guardo in silenzio. Poi mi chino su di lui: "Non sono né un re
né un artista, ma vorrei un vestito confezionato da te, caro Raul." Il
sarto sorride e mi guarda a lungo negli occhi.
***
2.
Là sulla collina.
Da qualche giorno sono ospite di una casa sulla collina che
consente di vedere il panorama dell'intera città. Mi è tornato il
desiderio di un gioco che facevo da ragazzo: immaginare che
d'improvviso le pareti delle case diventino trasparenti consentendo
di vedere le persone che vi abitano, seguire i loro gesti e indovinare le
loro parole. Riuscivo a "vederli", da ragazzo, oggi mi limito a
immaginarli.
Al mattino tutti si alzano, vanno in bagno, si vestono, fanno
rapidamente colazione, escono per andare al lavoro, o a scuola (con
orari che li debbono addestrare all'oppressione del lavoro)
rimangono a lungo immobili negli autobus, premuti gli uni contro gli
altri, o nei vagoni, spesso in avaria, del Metro. Lavorano, fanno una
pausa contratta per il pranzo, tornano a lavorare, poi, quasi sempre
col buio, rientrano a casa.
Nelle case si accendono i riverberi degli schermi televisivi. Quasi
tutti si immobilizzano davanti al rettangolo instabile della luce
azzurra.
E così giorno dopo giorno.
Solo il sabato e la domenica le dinamiche si diversificano.
Mi riesce impossibile non decifrare le immagini che la mente
propone quando i muri spariscono e la magia della trasparenza rivela
i percorsi fissi cui sono obbligati quasi tutti gli abitanti di queste
miriadi di celle, in cui ognuno è sia prigioniero che guardiano.
Questo muoversi insensato verso le stesse inutili mete, giorno
dopo giorno, consumando il tempo della vita solo per garantirsi
l'esistenza, fino al declino, quando la vitalità è ormai da tempo
scomparsa e l'esistenza si adorna di inguaribili malinconie. Questi
movimenti, che a livello individuale possono perfino apparire
plausibili, nella loro imponenza di massa rivelano la ferocia che li
determina. Soprattutto se si pensa all'ineluttabilità con cui questi
destini vengono subiti.
Di giorno in giorno questo popolo di " invisibili" emigra nel sonno
dall'oggi verso il domani, come se il giorno dopo fosse il solo
continente dove rifugiarsi per costruire la propria fortuna.
Ma l'indomani li vede nuovamente soccombere alla furia del
lavoro, o all'illusione di una meta da raggiungere a qualsiasi costo:
allevare i figli nella probità sociale, nascondere la vergogna
dell'indigenza, fare della propria disperata onestà un documento
lacero ma ineccepibile da consegnare alla storia.
Mi chiedo quale forza misteriosa abbia fatto dimenticare ai miei
simili che ognuno di loro vive una sola volta nell'arco estremo
dell'eternità, e che è loro diritto conoscere il mondo e avere almeno
mezza giornata affrancata dalla maledizione del lavoro (maledizione,
non a caso, di origine biblica).
Mezza giornata per riscoprire il gioco, gli affetti, i comportamenti,
i desideri, e perché no, i progetti, le aspirazioni e i sogni.
I loro ignoti persecutori che neppure concepiscono un reale
rispetto verso la persona umana, del resto, sono impigliati nella
stessa rete. I detentori del potere, non consentendo agli altri di avere
il tempo necessario alla vita, impediscono anche a se stessi di vivere.
***
3.
La vita in fumo.
Ho visto un paio di giovanotti arrancare sulle scale.
Trasportavano con gran fatica una pesante bombola di ossigeno.
L'ossigeno è stato ordinato dal medico, per salvare in extremis
l'inquilino del terzo piano da un collasso cardiocircolatorio con gravi
complicazioni polmonari. È un uomo anziano. Esce tutti i giorni alla
stessa ora a passeggio, camminando a fatica, sorretto dalla moglie.
Incontrandomi abbozza un sorriso e sussurra: "Avevi ragione, lo vedi
che è successo?" Si riferisce alle mille volte che, vedendolo con la
sigaretta in mano, ho tentato con ogni mezzo di dissuaderlo. Mai
dicendogli che il fumo fa male, che i suoi polmoni si contorcono in
spasmi soffocanti a ogni boccata di fumo.
No, semplicemente puntando sull'intelligenza, suggerendo
l'analogia con qualcuno che versa una bottiglia di aceto nel serbatoio
dell'automobile e si lamenta perché il motore funziona male o
addirittura smette di funzionare.
Allora arrivano le battute classiche della disperazione di cui ogni
fumatore è portatore sano: "A me piace fumare e poi se faccio del
male lo faccio a me stesso." Oppure: "Ma io conosco un vecchietto di
novantadue anni che fuma un pacchetto di sigarette al giorno e sta
benissimo". E negli occhi del fumatore leggo chiaramente un guizzo
di autocompassione.
Del resto, nella densità di ansia sociale ed esistenziale,
nell'assoluto nulla interiore che caratterizza l'occidente, fumare è
forse un minimo indispensabile livello di disperazione.
E allora cito il caso di un muratore di Frosinone caduto dal terzo
piano su una montagnola di sabbia. Non soltanto ne è uscito illeso,
ma è guarito da una grave forma di sciatica che da anni lo
tormentava. "Allora?" Chiedo: "Da oggi proponiamo di curare la
sciatica buttando le persone dal terzo piano?" Il fumatore ride e si
allontana, sicuramente va ad accendersi una sigaretta.
Ma ciò che ha spazzato via ogni mia speranza di convincerlo è
accaduto questa mattina quando, scendendo a piedi le scale, l'ho
sorpreso seminascosto dietro i vasi di fiori, accovacciato a fumare.
E quando incrocia il mio sguardo porta il dito indice sulle labbra
e, alludendo alla moglie, supplica: "Non mi tradire per carità." Mi
chino su di lui e lo rassicuro, anzi, mi viene un'idea.
Gli chiedo di offrirmi una sigaretta e lui stupito e al tempo stesso
estasiato dalla mia insperata complicità, toglie dalla tasca del
pigiama il pacchetto e con debole sorriso straziato dalla sofferenza
me ne offre una.
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