I portatori d’acqua – Atiq Rahimi

SINTESI DEL LIBRO:
Lei, Rina, dorme; tu, Tom, sei perso nei sogni.
Devi alzarti dal letto.
E andare.
Fuori piove; senti il fragore della pioggia battente che si schianta
contro la finestra; e si schianta anche la tua voglia di alzarti dal letto,
e andare.
Hai freddo; anche il sole ha freddo. L’alba, indecisa come te,
fatica a sorgere e lascia la camera immersa nel buio. Dubiti dei tuoi
occhi spalancati. Che tu li chiuda o no, non cambia nulla. Qualcuno
deve aver spento la lucina del corridoio. Rina? No di certo, poiché te
ne saresti accorto. Come tutte le sere avete lasciato socchiusa la
porta della camera per tenere d’occhio vostra figlia Lola,
sonnambula; Rina non si è alzata dal letto; e tu non hai chiuso
occhio tutta la notte.
Questa oscurità totale è inquietante. Cancella tutti i punti di
riferimento e ti costringe ad affidarti solo alla memoria per ritrovare il
percorso che ti porterà nel corridoio. Ma il tuo corpo inerte lascia che
sia la mente a strapparti al letto a cui sei incollato. E la mente, persa
nell’ombra dei propri dubbi, vaga tra la veglia e il sonno.
Non sai piú allora se sogni o se pensi. Tuo nonno, con il suo
inconfondibile lirismo di marca afghana, ti avrebbe paragonato
all’uccello di mezzanotte che, con un occhio aperto per restare
sveglio e l’altro chiuso per sonnecchiare, un’ala verso il cielo e l’altra
verso la terra, le zampe legate all’unico ramo centrale dell’albero su
cui è appollaiato il suo nido, sogna un luogo lontano. Per te questa è
la condizione dell’intera umanità. Per tuo nonno invece era piú
un’esperienza mistica, una visione angelica del conflitto fra i nostri
sogni terreni e la contemplazione del cielo… Dove l’aveva scovato,
quell’uccello? In quale leggenda? In quale libro? Nessuno può dirlo.
Lui menzionava un’opera, una specie di raccolta di tutti i libri perduti
della letteratura pashtu…
Rincantucciata quasi sul bordo del letto, Rina si muove. Si volta
verso di te, come se ti avesse sentito ridacchiare con tuo nonno.
Con i lunghi capelli nerissimi che sfidano il buio della stanza, ti sfiora
il braccio abbandonato fuori dalla coperta; e nel riportarti cosí
accanto a sé, ti fa uscire dalla mente il titolo del libro in lingua pashtu
che tuo nonno citava ogni volta che inventava una parabola, come
quell’uccello di mezzanotte perso nel mondo dei sogni a cui può
avere accesso solo il genio dei profeti durante il nik-tarikí, la
penombra benigna. Non un sogno a occhi aperti, né un pensiero
onirico, ma un Ro’ya, un sogno, all’origine della visione e
dell’ispirazione profetica.
Ma il titolo del libro?
Rinuncia a cercarlo, rischieresti di perdere anche il filo dei tuoi
sogni. O peggio, finiresti per non ricordare piú in che lingua sognavi.
In persiano o in francese? E quella faglia inghiottirebbe tutto ciò che
in silenzio ti recitavi. Dimenticando la lingua, dimenticherai i tuoi
pensieri.
Torna all’uccello di mezzanotte nella penombra benigna.
Ecco, non sei né un profeta né quell’uccello mitico, sei solo
tormentato dal mistero della lucina spenta che ti impedisce di alzarti
dal letto. Di solito, al risveglio, appena apri gli occhi il suo debole
chiarore invita il tuo sguardo a perdersi nella serigrafia del quadro di
René Magritte, La riproduzione vietata, che Rina ha appeso alla
parete del corridoio, proprio davanti alla porta della vostra camera da
letto.
Che posto singolare per un quadro cosí misterioso!
Ma in fin dei conti, perché ti stupisci? Non è certo la prima volta
che noti quanto sia strana la sua collocazione. È lí, a portata del tuo
sguardo, ormai da un bel pezzo. Con ogni probabilità Rina l’ha
appeso in quel punto perché ne andava fiera, come di un trofeo. In
fondo è il primo quadro che hai riprodotto su quella bella seta
quando ti hanno assunto alla società Anagramme, e soprattutto è
l’ultimo regalo che le hai fatto. Eppure quando lo contempli ti
passano per la testa mille cose. Ogni mattina.
E dire che il quadro raffigura una scena facile da immaginare: un
uomo, dipinto di spalle, si guarda allo specchio e si vede di spalle,
duplicando cosí l’immagine. Semplice, ma enigmatico. E
malinconico. Ti esaspera. Ti chiedi se Rina non l’abbia appeso lí
proprio perché tutte le mattine tu possa riconoscerti in quel
personaggio, tu nell’abisso delle tue contraddizioni, che dai le spalle
a te stesso. Ma questa è solo una tua congettura; lei non ti ha mai
detto niente. E niente tu le hai mai chiesto.
L’effetto prodotto su di te dal quadro ha la meglio tanto sulle
intenzioni di tua moglie quanto sulla tua contrarietà. Una strana
sensazione, che ti proietta in una dimensione né onirica né mistica,
ma in un mondo piú empirico e sensuale, impossibile da descrivere
se non attraverso un’esperienza analoga vissuta in uno studio di arti
grafiche, quando per la prima volta il tuo sguardo si era posato su
quell’opera. Era molto, moltissimo tempo fa. All’epoca eri un giovane
rifugiato afghano. Dopo che avevi studiato per due anni la lingua
francese, il centro per l’impiego ti aveva mandato in quel piccolo
studio in una sperduta periferia parigina. Tu in verità sognavi di
studiare in un’accademia di belle arti. Ma essendo privo delle
competenze artistiche richieste, ti eri dovuto accontentare di quella
formazione piú tecnica che creativa.
Da fuori lo studio era cupo, ma l’interno era illuminato in maniera
esagerata da certi orribili neon. In quella luce lattea ti eri trovato
davanti al quadro, o meglio dietro a quella figura di spalle che si
contemplava, di spalle, nello specchio. «Originale!» avevi pensato,
senza sapere che quell’opera apparteneva ormai da tempo ai cliché
della storia dell’arte. Poco importava. Tu l’avevi appena scoperta.
Per te era qualcosa di originale, di inedito.
Ma per la prima volta avevi dovuto affrontare una sconcertante
impressione di familiarità. Ti chiedevi se quel quadro non l’avevi già
visto. Sotto la stessa luce biancastra, nella stessa situazione. Dove?
E quando? Allora non eri in grado di dirlo. Come non sei in grado
oggi. Un passato sospeso. Incompiuto. Sentivi che rifacevi i gesti,
che rivivevi lo stato d’animo e le emozioni, proprio come se li avessi
conosciuti e vissuti in un altro momento della vita, senza la benché
minima differenza. Una riproduzione. Una copia esatta della
situazione, che avresti potuto addirittura descrivere in anticipo.
Riconoscevi tutto. Ogni gesto, ogni parola detta o sentita
sembravano tornarti in mente fin nei minimi dettagli. Riaffioravano
misteriosamente, con una subitaneità incredibile, quasi fulminea.
Come se ti fossi ricordato di un passato nel quale ti rammentavi di
quell’istante – il tuo stupore di fronte all’opera in quello studio. Un
passato che non sapevi collocare né nel tempo né nella memoria. Il
luogo era indefinibile; il tempo inafferrabile. Uno spazio-tempo da
C’era una volta…
Eppure, se cosí era, perché non ti ricordavi del quadro prima di
(ri)vederlo nello studio? Dov’era nascosto quel ricordo? Impossibile
chiarire il mistero. Un po’ stranito, cosí rimanesti tutto il giorno,
cercando di capire cosa ti fosse successo. Un disturbo della
memoria? Un difetto della mente? Una reincarnazione, come
pensano gli indú? Alla fine ti eri fatto l’idea che esistesse un mondo
parallelo in cui si rifletteva come in uno specchio il mondo nel quale
vivevi.
Invano, poi, avevano cercato di convincerti che si trattava del
fenomeno del déjà-vu, un’impressione insignificante, un’illusione
prodotta da uno sfasamento fra la mente e la percezione eccetera.
Una specie di paramnesia, insomma, quella strana condizione in cui
pensiamo di avere già vissuto una certa scena.
All’epoca non capivi. Non solo non afferravi il senso delle parole
dotte in francese, ma anche il fenomeno in sé non l’avevi mai
vissuto, non ne avevi mai sentito parlare. Nella tua lingua madre non
esiste una parola equivalente.
È una cosa che succede a tutti, oggi lo sai. Ma ad alcune persone
quella sensazione, seppur breve, procura un malessere cosí strano,
cosí inquietante e cosí improvviso da farle piombare in una specie di
panico da cui non riescono a uscire. A te, invece, quella sensazione
di déjà-vu non suscita alcuna inquietudine. Ti diverte, e ti rende la
situazione familiare. Nessuna sorpresa, niente di nuovo, ti sembra,
tutto è soltanto ricordo, l’intero presente. Ti senti padrone del tempo.
In uno stato di incanto e di beatitudine. Se non di profezia. Chi non
sarebbe disposto a morire pur di rivivere la propria vita, anche solo
per una frazione di secondo? Chi non sogna di viaggiare nel tempo?
E ora questa sensazione è a portata della tua mente. Gratis. Senza
sforzo. Non come in un sogno, no, bensí nella realtà dei fatti, hic et
nunc. Niente di soprannaturale.
Ecco cosa ti mancherà stamattina che la lucina è spenta, a meno
che non resti a letto finché non fa giorno. Altrimenti devi alzarti,
accendere la lampada e contemplare il quadro perché ti tormenti e ti
perseguiti.
Su, in piedi!
E ricordati di disattivare la sveglia.
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