I perfetti vicini di casa – Rachel Sargeant

SINTESI DEL LIBRO:
Il faretto è fissato al soffitto, in modo che i prigionieri non possano
arrivarvi. Nonostante il mal di testa causato da tutta quella luce, Helen non si
ripara gli occhi. Se li chiudesse, sarebbe di nuovo travolta: da quelle
immagini dai contorni incerti che scorrono dall’alto in basso e da destra verso
sinistra, e poi si fermano, ricominciano. Non sa quale verrà a tormentarla per
prima. Se sarà fortunata, il violoncello da bambino, rovesciato, con il manico
rotto e i fori di risonanza imbrattati di sangue. Oppure la cheesecake guarnita
con ciliegie e sangue. O il pelo arruffato rosa e nero sulla pancia del cane
morto. Magari il maglione a collo alto dal cui squarcio budella disgustose si
riversano sul parquet. O Gary.
Si siede sul bordo del letto e si culla abbracciando le ginocchia. Se
riuscisse a concentrarsi sul violoncello, forse il resto sparirebbe. Deve
aggrapparsi a quello strumento appiccicoso, focalizzarsi su quella immagine,
osservare la vernice ispessita sul legno, ricordare la mano piccola ed esperta
che un tempo premeva sulla tastiera e sforzarsi di richiamare alla mente quel
suono rilassante. No, non basterebbe a fermare le altre immagini. Già
diciassette giorni e ogni particolare è ancora nitido davanti ai suoi occhi.
Si alza, cammina per la stanza. Le articolazioni sono intorpidite dalla
mancanza di movimento. Le permettono di passeggiare nel cortile sul retro
della stazione di polizia, ma chiede sempre di rientrare subito perché la neve
ammucchiata contro il recinto le ricorda la sua cella. Completamente bianca.
Nell’angolo, senza tavoletta né coperchio, il gabinetto. Bianco. Il pulsante
verde della porta è l’unico colore vivido.
«Prego, si accomodi. Il suo avvocato sarà qui a momenti», le comunica
dall’interfono il sergente alla scrivania. Inutile discuterci, sicuramente non
parla bene inglese e lei, anche dopo otto mesi, è la classica anglosassone che
all’estero non si sforza di imparare la lingua.
Si butta sul letto. Il materasso ha lo stesso odore dei guanti di gomma che
usava in cucina. Lei lava i piatti, Gary li asciuga. Poi un’altra immagine:
Gary con le caviglie piegate, lo sguardo vuoto, le spalle scarlatte. Cerca di
scacciarla e concentrarsi su Gary nella loro cucina, accanto al lavello. Cerca
di farlo sorridere, di farlo parlare, poi si rannicchia stremata. La serratura
automatica della porta scatta, ma lei rimane in posizione fetale. È l’avvocato,
Karola. La vicina dal viso rubicondo che alleva gli spaniel in giardino e con
cui scambia un saluto ogni lunedì, quando portano fuori la spazzatura. Ora,
però, è la signora Barton, l’unico avvocato tedesco bilingue che la scuola è
riuscita a trovare in così poco tempo, ultimamente più abituata a raccogliere
escrementi di cane che ad assistere donne accusate di omicidio.
Helen si volta verso il muro.
«Perché non ha menzionato Sascha Jakobsen?», domanda Karola.
Quel nome è una pugnalata per Helen. Non risponde.
«Ha detto alla polizia che eravate insieme in piscina, a Dortmannhausen».
Helen si tira su a sedere. «Davvero?»
«La polizia ha di nuovo ispezionato quella piscina gelata. Farebbe meglio a
raccontarmi tutto», dice Karola sedendosi sul letto. Ha l’anima più nera del
completo che indossa.
Helen richiama a sé le gambe, allontanandole dalla donna. «Non c’è niente
da dire».
«Da quanto conosce Jakobsen?».
Perché fa una domanda di cui sa già la risposta? La scuola è una boccia per
pesci rossi in cui nuotano entrambe. Karola Barton sa tutto di lei, ogni
dettaglio, come anche gli altri vicini. Quelli ancora in vita.
«Non era come pensa», risponde Helen.
Karola si alza, la piega dei pantaloni è perfettamente perpendicolare al
pavimento. «E come era, signora Taylor?».
2
Lunedì 5 aprile
Otto mesi prima
Gary strinse la mano di Helen: «Emozionata?».
Lei non rispose. Era emozionata? Un nuovo inizio in un Paese nuovo.
Moglie a tempo pieno. Abbozzò un sorriso e annuì.
Uscirono dall’autostrada – la Landstrasse, come la chiamava Gary – ed
entrarono in una zona grigia, pesantemente cementificata. A Helen tornò in
mente la gita delle medie in Bulgaria, in pullman, e i palazzi sovietici alla
periferia di Sofia. Gary guardò il semaforo e indicò: «E là in fondo c’è la
Niers International School».
Sulla destra, attraverso un’appuntita cancellata metallica, Helen intravide
file di rastrelliere piene di biciclette parcheggiate. Sembrava quasi una
stazione ferroviaria di provincia.
«Da qui non si vede bene», aggiunse Gary.
Accanto alla guardiola della sentinella c’era un uomo robusto con una
divisa scura, il tetto di legno era scheggiato e crepato.
«Avete la vigilanza?», gli chiese.
«Non preoccuparti di Klaus. Questo posto è controllato a tempo pieno da
due uomini della sicurezza. Ai genitori fa piacere, se non fosse che i ragazzi
passano il tempo a giocare ai soldatini nelle guardiole».
Helen sorrise finché non notò un «Ausländer Raus» scritto con lo spray
sulla pensilina dell’autobus. «Significa quel che penso?».
Il semaforo divenne verde e svoltarono a destra.
«Fuori gli stranieri, ma è raro vedere cose simili. La maggior parte dei
tedeschi ama la scuola internazionale. Molti qui hanno un lavoro collegato
all’istituto e grazie ai genitori degli studenti girano parecchi soldi».
Le aveva parlato dei genitori, tempo prima. In gran parte lavoravano nelle
multinazionali con sede a Düsseldorf, i restanti erano ricchi del luogo disposti
a pagare per far frequentare ai figli una scuola in inglese. E alcuni erano
insegnanti.
«Pensaci, Helen», aveva detto Gary quando, durante i fine settimana in cui
si vedevano e si tormentavano su dove andare a vivere, avevano stilato una
lista dei pro e dei contro. «Non adesso, ma tra qualche anno, se avremo dei
bambini, quella potrebbe essere la loro scuola. Ci sono molti vantaggi,
stipendio compreso».
Era stato quello il fattore decisivo: lì Gary avrebbe guadagnato da solo più
di quanto avrebbero portato a casa in due in Inghilterra. La testardaggine di
Helen aveva ceduto davanti alle cifre nude e crude. Si era licenziata e aveva
messo in affitto la propria casa.
Gary prese un dosso e la cintura di sicurezza le segò la clavicola.
«Hai notato i nomi delle strade?». Ne indicò uno composto di più sillabe,
un guazzabuglio di Ls e di Es. «Riesci a leggerlo?».
Fece di no con la testa. Erano in viaggio, senza soste, da Calais. Passato il
confine con la Germania, la segnaletica era diventata di uno stridente giallo
teutonico. I nomi delle strade erano scritti in bianco, più o meno come in
Inghilterra, ma erano impronunciabili.
Gary procedeva piano, per nulla infastidito dallo slalom tra macchine
parcheggiate, bambini che giocavano e dossi. Helen osservò il suo profilo: gli
zigomi arrotondati, la mandibola dolce, lo sguardo paziente. Chi avrebbe mai
detto che la gentilezza potesse essere tanto affascinante? Si rilassò.
«A cosa pensi?», le chiese.
«A Birmingham». Si erano conosciuti là.
Conclusi i lavori del convegno di insegnanti, al bar dell’università il viso di
Gary le era apparso gentile in mezzo alla folla rumorosa. Era la persona con
cui tutti volevano parlare, a cui tutti si avvicinavano, creandogli intorno uno
strano girotondo. Quando lui si era accorto di lei, le aveva sorriso. Helen, di
solito allergica alla massa, aveva raccolto l’invito e si era fatto strada per
unirsi a quella danza. A fine serata, lei e Gary erano gli unici rimasti in pista.
«Rimpianti?».
Era ancora spaventata per il trasferimento? Aveva avuto tempo a
sufficienza per decidere. Gli accarezzò il braccio e sorrise. Non era più
spaventata, no. Un po’ in apprensione, forse.
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