I figli di Odino – L’ex commissario Oppenheimer e la fine del Reich – Harald Gilbers

SINTESI DEL LIBRO:
Dopo l’incontro con Hitler, Hauser sapeva che la guerra era ormai perduta.
Ma adesso non aveva tempo di ripensare a quello strano scherzo del destino.
Con la valigia stretta sotto il braccio, procedeva lungo la recinzione di filo
spinato. L’aria gelida gli pungeva i polmoni.
Un corvo spaventato si alzò gracchiando nel cielo del mattino, per poi
posarsi di nuovo a terra, pochi metri più in là. Quasi certamente aveva già
assaggiato la carne dei morti e ora attendeva paziente, fiducioso che vi fosse
ancora qualcosa per lui.
Nel lager non c’era più alcuna parvenza di ordine. Ovunque si vedevano
uomini in uniforme correre disorientati qua e là, tra i veicoli che zigzagavano
senza meta e il frastuono di ordini sbraitati in tutte le direzioni. Gli unici che
sembravano seguire uno schema preciso erano i capi delle squadre di
evacuazione, intenti a radunare le prigioniere e a prepararle alla marcia, dopo
averle divise in piccoli gruppi.
Nell’alloggio delle SS, Hauser infilò le ultime cose nelle tasche del
cappotto – in valigia non c’era più posto – e passò di nuovo davanti alla torre
di guardia principale, diretto verso sud. Camminava nella neve seguendo le
sue stesse orme, lasciate poco prima, ma era sempre meglio che avanzare
lungo le strade sgomberate che, nonostante il freddo, erano tutte fangose.
Raggiunta la torretta successiva si fermò, aveva ancora una faccenda da
sbrigare.
Disertare era la sua unica possibilità.
Era inutile farsi illusioni. Il campo di concentramento aveva i giorni contati.
La settimana precedente, con l’inizio dell’offensiva sovietica, Hauser si era
messo a ragionare su una strategia percorribile. Non doveva farsi prendere
dalla frenesia della fuga, attenersi al piano era l’unica opzione per uscire
incolume da quella situazione.
Gli strateghi di Hitler se lo aspettavano, quell’ultimo affondo dell’Armata
Rossa. Era dalla fine di novembre che ad Auschwitz si lavorava per cancellare
ogni traccia della vera e propria industria della morte che aveva avuto sede
nel campo di concentramento. L’ordine di smantellare i forni crematori era
arrivato dal Reichsführer Heinrich Himmler in persona. I motori delle pompe
che servivano per estrarre l’aria dalle camere a gas erano stati inviati al campo
di concentramento di Mauthausen, le condutture a quello di Groß-Rosen. Per
preparare l’esplosione dei crematori e delle camere a gas, i prigionieri erano
stati costretti a fare un’infinità di buchi nelle pareti. Le fosse comuni dove
avevano bruciato i cadaveri erano già state riempite di terra e coperte con
delle piante.
Quando l’offensiva russa aveva finalmente avuto inizio, non pochi dei
camerati di Hauser si erano sentiti sollevati. Il tempo dell’attesa era finito, la
tensione si era dissolta.
La rapida avanzata dell’armata di Stalin era stata però una sgradita
sorpresa. Il pomeriggio precedente, al campo era giunta notizia che il nemico
era ormai vicino. Il panico era dilagato. Per tutta la notte si era udito lo
stridere delle ruote dei veicoli che arrivavano dal campo riservato ai
prigionieri politici. Gli ufficiali sanitari delle SS avevano ricevuto l’ordine di
bruciare alla svelta anche la documentazione dell’ospedale riservato alle
donne.
Hauser salì per l’ultima volta la scala della torre di guardia. Il soldato
delle SS in servizio quel giorno era un ragazzetto dal mento tondo, sulla
ventina. Hauser lo conosceva bene. Non aveva avuto alcuna difficoltà a
portarlo dalla sua parte. Il ragazzo l’aveva assecondato e l’aveva aiutato a
preparare la fuga in tutta segretezza.
Quando arrivò alla piattaforma, il ragazzetto si voltò e gli fece il saluto
nazista, sbattendo rumorosamente i tacchi degli stivali.
“Hauptsturmführer!”
“Stia comodo,” rispose lui con un sorriso, offrendogli una sigaretta. “Vorrei
ringraziarla ancora per avermi aiutato con il vagone ferroviario.”
“È andata bene? E i documenti?”
“Non c’è stato nessun problema. Ieri è partito tutto in tempo.”
Hauser guardò giù verso le baracche per l’ultima volta. Il blocco, BIa, quello
che avevano sgomberato a novembre. Le prigioniere e i bambini che si
trovavano là dentro erano stati trasferiti nell’ex blocco per gli zingari BIIe,
che ora fungeva da campo di smistamento. A causa della neve accumulatasi
sui tetti delle baracche ormai disabitate, i muri di mattoni bruni sembravano
ancora più sporchi di quanto non fossero.
All’improvviso si sentì sopraffare dalla stanchezza. Era stato in piedi tutta
la notte, ma non poteva permettersi di riposare. Doveva assicurarsi di aver
eseguito gli ultimi ordini ricevuti, per non insospettire nessuno.
Si fermò a riflettere. No, non aveva dimenticato nulla.
Qualche ora prima, quando era ancora buio, aveva percorso in automobile i
cinque chilometri che conducevano all’Istituto di igiene, a Rajsko, per infilare
in valigia la documentazione relativa alle ricerche, che aveva raccolto alla
meglio. Poi aveva tirato fuori dal loro nascondiglio due flaconi pieni e li aveva
avvolti con cura nella carta, incastrandoli tra i fascicoli nella valigia per
proteggere a dovere il loro prezioso contenuto.
“È vero che sono arrivati i russi?”
La domanda del giovane soldato lo distolse dai suoi pensieri. Il giovanotto
stava guardando la campagna che si stendeva verso est.
“Ieri hanno attaccato Cracovia,” spiegò Hauser. “Venivano da nord-ovest.
Le nostre postazioni sono state colte di sorpresa, non si aspettavano un attacco
da quella direzione. Quella della Wehrmacht non è più una ritirata. È una
fuga. Il governatore generale Frank se l’è già svignata.”
C’erano ancora cinquanta chilometri tra loro e il fronte. Una distanza
spaventosamente breve, in una pianura come quella. Hauser spinse lo sguardo
più lontano che poteva, ma alle spalle della cittadina di Auschwitz – ovvero la
polacca Oświęcim – non riusciva a distinguere niente.
Ebbe invece l’impressione di sentire qualcosa.
Un rombo profondo, lontano. Motori potenti, cingoli di carri armati.
Qualcosa si avvicinava dietro la linea dell’orizzonte, un rullo compressore
rombante che puntava sul campo di concentramento.
Hauser constatò però con sollievo che la via di fuga per Katowice era
ancora libera.
Non appena fece per muoversi, il soldato gli domandò: “Ci vediamo a GroßRosen?”
Groß-Rosen era il loro punto di raccolta, ma Hauser sapeva già che non ci
sarebbe mai arrivato, la destinazione che aveva in mente era un’altra. “Ma
certo,” rispose con un sorriso falso. Poi prese la valigia. “Ci vediamo.”
Per impedire che in quel caos qualcuno gli rubasse la macchina, Hauser
l’aveva parcheggiata vicino al capannone adibito a magazzino per le patate.
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