Follia maggiore – Alessandro Robecchi

SINTESI DEL LIBRO:
Il sovrintendente di polizia Tarcisio Ghezzi scommee con se stesso. Il
capo Gregori li vuole su alle see in punto e lui si gioca un caè della
macchinea che Carella arriverà in ritardo, sono le 18 e 58 e quindi ha
quasi vinto, e questo lo pensa proprio mentre quello entra come un tuono
dalla porta della sala d’aesa.
«Andiamo che è tardi», dice Carella.
Niente caè, pensa Ghezzi. Anzi sì, toh! Scandalo e ribellione.
Infila la chiavea nel distributore, schiaccia un pulsante e aspea. Il
caè l’ha perso, va bene, ma siccome scommeeva contro se stesso l’ha
anche vinto, no? Gregori aspeerà due minuti.
Nell’ufficio del capo non c’è aria d’emergenza, Gregori non è incazzato e
in più Ghezzi gli porta un regalo.
«Caso risolto, capo».
«Dai, racconta, veloce, poi riempi le scartoffie».
Carella si siede composto, Ghezzi è su una poltroncina che ha ospitato
onorevoli culi di pm, vedove piangenti, politici in visita, indagati illustri e
polizioi a rapporto. Come lui ora. Ha fao appena in tempo a togliersi il
camice bianco da infermiere che in qualche modo gli dava una certa
autorevolezza tra le corsie e i corridoi dell’ospedale Niguarda, reparto
solventi.
«Uno dell’ufficio tecnico e un’infermiera, la solita storia. Hanno
cominciato a fregare qualche portafoglio nei comodini, poi hanno
ragionato più in grande. Lui studiava la situazione patrimoniale dei
pazienti, se avevano famiglia o vivevano soli, tuo scrio nelle cartelle
cliniche e nei documenti di ricovero, lei prendeva le chiavi di casa dalle
borse dei ricoverati e mentre quelli trepidavano all’ospedale per
l’intervento o per le analisi, andavano a ripulire gli appartamenti. Mi sa
che non possiamo nemmeno dargli lo scasso, perché entravano come a
casa loro».
«Trovato tuo?».
«Stanno inventariando e incrociando le denunce, ma un po’ di roba sì, a
casa di lei, non esaamente due geni, ecco».
ello che Ghezzi non dice è come ha fao, e che l’arresto è stato
eseguito nel suo saloo, e che aveva messo di mezzo la Rosa, mentre si sa
che è una regola ferrea non coinvolgere civili, familiari nemmeno
parlarne, la moglie, poi, apriti cielo, sarà vietato dal regolamento perfino
in Texas, e una rompiballe simile…
Comunque lui aveva bisogno di una persona ricoverata lì con cui fare
comunella, e siccome il primario era d’accordo ci aveva messo sua moglie,
Rosa Ghezzi, di anni quasi cinquanta, abbastanza sveglia da chiacchierare
con tuo il personale, dire e ridire che lei abitava sola, che era
indipendente, che non si fidava delle banche. «Meglio il materasso, sa!
Meglio il materasso, per quei pochi risparmi!».
Insomma, la Rosa aveva volantinato in giro per l’ospedale più grande
del mondo che semplicemente rubandole un mazzo di chiavi dalla borsea
incustodita mentre lei faceva chissà quali analisi, si poteva trovare
l’Eldorado nel suo materasso, in via Farini.
Lui, il Ghezzi, sovrintendente e titolare dell’indagine, si era fao
appiccicare un ruolo bislacco di «valutazione turni», per cui poteva andare
e venire a piacimento vestito da infermiere, con la sua tonaca candida da
hare krishna della sanità. Aveva dovuto solo aspeare, annoiarsi un po’ e
diventare parte dell’ambiente, come un vaso di fiori. Poi, quando alla Rosa
avevano finalmente fregato le chiavi, era andato a casa ad aspeare,
giocando a carte con l’agente Sannucci, che era un vero disastro. ando i ladri erano entrati, a mezzanoe passata, quaro mandate la
serratura sopra, quaro quella soo, li aveva accolti con gentilezza:
«Buonasera, polizia». Lei era scoppiata a piangere e a quell’altro era
caduto il mondo addosso, perché a casa aveva moglie e due bambini
piccoli, e questa qui con cui faceva i furti era l’amante. Una storia che
strapperebbe il cuore a Nosferatu, ma erano finiti in manee lo stesso, con
Sannucci che li portava giù per le scale e Ghezzi che si faceva,
gentilmente, ridare le chiavi.
Se venisse fuori che Ghezzi ha usato la moglie per un’indagine
sarebbero guai, ma su queste cose lui è fatalista, ora che è sovrintendente
dopo tanti anni di punizione, con l’orizzonte della pensione che si
avvicina, si sa che tanto i pioli della scala per lui sono finiti. Alla Rosa non
voleva dirglielo, prima che si allargasse troppo, ma era stata davvero
brava, e in più le avevano fao le analisi, «che di solito c’è una lista
d’aesa, Tarcisio!».
«Bene, bel lavoro», dice Gregori, «due pirla di meno in giro».
Poi guarda Carella. Tocca a lui, ma non ha molto da dire. Carella è uno
che deve stare in tensione, per funzionare, è uno che va alla baaglia. Se
non c’è sangue in giro si fa svogliato come un vigile urbano a ferragosto.
Ora ha in mano una pista fredda, un notaio morto sparato di cui dopo
mesi sanno solo che era un notaio e che è morto male. Niente tracce,
niente testimoni, niente di niente. Siccome lì si perde tempo, ora si occupa
di un piccolo boss della zona Certosa, che aspea un po’ di roba, qualche
chilo. È reduce da giorni di burokratia tra la procura e gli uffici tecnici lì in
questura, e la sua buona notizia per Gregori è che sono pronti. Hanno
iniziato gli ascolti – una ventina di telefoni tracciati, computer, eccetera –
e appena si sa dove correre si corre.
«Speriamo bene», dice Gregori. È contento perché fila tuo liscio.
Ora c’è silenzio e un’aria di smobilitazione, dopotuo sono quasi le oo
e non è che nostro Signore impedisce di andare a casa a un’ora decente.
Ma Gregori non molla. Esita un po’, come se volesse dire ma anche no,
come se non sapesse da che parte prendere una questione.
Poi si dà una mossa.
«C’è una cosa delicata», dice. Lo fa apposta, così quelli stanno aenti.
E infai stanno aenti e lo guardano come dire, dai, su, facciamo noe?
«Ho un paio di segnalazioni strane, che riguardano qualcuno di noi».
È un modo per geare la bomba, ma anche per non dire niente. Ghezzi
se ne sta zio, perché sa che se Gregori ha deciso di parlare parlerà.
Carella però è fao in un altro modo.
«Su, cazzo, capo, o dice o non dice, cosa sono ’ste mezze frasi?».
«È scomparsa un po’ di roba sequestrata, l’affare dell’altra sera alla
Centrale, sapete… niente di che, erano seantanove bustine, contate, e ora
sono seantacinque. Eroina. Abbastanza da poter pensare di averle contate
male la prima volta, insomma, è un furto da polizioo».
Ghezzi non fa una piega. Carella sorride perché quella notazione del
capo è soile. Se il materiale non è ancora passato per le forche caudine
dei moduli e dei rapporti e dei verbali di sequestro, chiunque ce l’abbia in
mano preferirà dire di aver sbagliato a contare piuosto che affrontare
un’indagine interna o, peggio, un sacco di rogne e carte da scrivere.
Proprio un furto da sbirri.
«A parte questo», continua Gregori, «c’è un barista, dalle parti di via
Arbe… dice che uno è andato lì a fargli quel discorseo che sappiamo
tui… Il bar è un’aività rischiosa, magari ti protegge qualcuno… bene,
ma se non ti protegge nessuno, chi meglio della polizia? E guarda un po’,
dice ’sto visitatore misterioso, la polizia sono io, con tanto di tesserino e
segnali chiarissimi. Il barista ha deo ci penso ed è venuto a pensarci qui,
un bravo ciadino cinese, ma poi come testimone oculare un disastro, non
ci ha saputo nemmeno dire se quello era alto o basso, grasso, magro, o coi
baffi…
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