Ebano – Ryszard Kapuscinski

SINTESI DEL LIBRO:
La prima cosa che colpisce è la luce. Gran luce ovunque, tanto sole, un
chiarore abbagliante. Risalgono appena a ieri la Londra autunnale, l'aereo
lucido di pioggia, il vento freddo, l'oscurità. Qui, di primo mattino,
l'aeroporto inondato di sole e noi tutti immersi nel sole.
In passato, quando gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per
nave, il viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. I panorami
scorrevano con lentezza, la scena del mondo si spostava di poco alla volta.
Un viaggio durava settimane, mesi. L'uomo si adattava per gradi al nuovo
ambiente, al nuovo paesaggio. Anche il clima mutava gradualmente, un po'
per volta. Spostandosi dalla gelida Europa al torrido equatore il viaggiatore
passava per il grato tepore di Las Palmas, per la calura di El-Mahara e per la
fornace di Capo Verde.
Oggi di questa gradualità non resta più niente. L'aereo ci strappa
bruscamente alla neve e al gelo e il giorno stesso ci scaraventa nell'abisso
ardente dei tropici. Il tempo di stropicciarci gli occhi ed eccoci dentro
l'inferno del caldo umido. Cominciamo immediatamente a sudare. Se siamo
partiti dall'Europa d'inverno, ci togliamo il cappotto, sfiliamo i golf. È il
classico gesto d'iniziazione della gente del nord al primo impatto con l'Africa.
La gente del nord. Ma abbiamo mai riflettuto sul fatto che nel nostro
pianeta la gente del nord non rappresenta che un'esigua minoranza? Canadesi
e polacchi, lituani e scandinavi, parte degli americani e tedeschi, russi e
scozzesi, lapponi ed eschimesi, evenki e jacuti: la lista non è poi molto lunga.
Non so neanche se arrivi a superare i cinquecento milioni di abitanti: meno
del dieci per cento della popolazione terrestre, la cui stragrande maggioranza
vive invece nella canicola, arrostisce al sole per tutta la vita. E del resto è lì
che è nato l'uomo: le tracce più antiche della sua esistenza sono state
rinvenute nei paesi caldi. Qual era il clima del paradiso biblico? Bello stabile.
Anzi doveva farci molto caldo perché Adamo ed Eva potessero girare nudi
senza sentire freddo neanche all'ombra dell'albero.
Fin dalla scaletta dell'aereo ci imbattiamo in un'altra novità: l'odore dei
tropici. Ma è davvero una novità? Non è forse l'identico afrore che
impregnava la bottega di generi coloniali e simili del signor Kanzmann in via
Pereca a Pinsk? Mandorle, chiodi di garofano, datteri, cacao, vaniglia e foglie
d'alloro. Le arance e le banane un tanto al pezzo, il cardamomo e lo zafferano
a peso. E le botteghe color cannella di Schulz a Drohobycz? "Il loro interno
fiocamente illuminato, buio e solenne odorava intensamente di vernice,
ceralacca, incenso, aromi di paesi lontani e sostanze rare." Ma l'odore dei
tropici ha qualcosa di diverso e di cui subito cogliamo la graveolenza, la
corposità vischiosa. Un odore che ci avverte che ci troviamo nel punto della
terra dove una biologia esuberante e instancabile lavora, produce, prolifera e
fiorisce senza sosta e senza sosta si ammala, si decompone, si tarla e
marcisce.
E un odore di corpi surriscaldati e di pesce essiccato, di carne andata a
male e di cassava tostata, di fiori freschi e di alghe fermentate: di cose al
tempo stesso gradevoli e ripugnanti, attraenti e disgustose. Un odore che ci
arriverà dai vicini palmizi, scaturirà dalla terra infuocata, aleggerà sui
rigagnoli maleodoranti della città senza mai abbandonarci: è una parte
integrante dei tropici.
E infine, la scoperta principale: quella della gente del posto, dei locali.
Come sembrino fatti apposta per questo paesaggio, per questa luce, per
questo odore. Come facciano un tutt'uno con essi. Come uomo e paesaggio
formino un unicum inscindibile, armonioso e complementare. Come ogni
razza sia connaturata al suo paesaggio, al suo clima. Noi plasmiamo il nostro
paesaggio ed esso a sua volta ci plasma i tratti del volto. Tra le palme, nella
macchia e nella giungla, l'uomo bianco appare un elemento spurio,
incongruo, dissonante: pallido, debole, la camicia madida di sudore, i capelli
appiccicati, sempre tormentato dalla sete, da un senso di impotenza, dalla
malinconia. E sempre in preda alla paura: delle zanzare, dell'ameba, degli
scorpioni, dei serpenti. Tutto ciò che si muove lo riempie d'orrore, di
spavento, di panico.
Per i locali, invece, succede tutto il contrario: dotati di una naturale grazia e
resistenza, si muovono a loro agio e liberamente al ritmo imposto dal clima e
dalla tradizione. Un ritmo rallentato, che non conosce fretta: tanto nella vita
non si può mai avere tutto. Altrimenti agli altri che resterebbe?
Sono qui da una settimana. Tento di conoscere Accra, Accra è un villaggio
della giungla moltiplicato e ingrandito, arenato sul Golfo di Guinea. Accra è
povera, piatta, fatta di case a piano terra con qua e là qualche edificio più alto.
Niente architetture ricercate, niente lussi né sfarzi. Pareti intonacate di giallo
pastello o di verde pallido, coperte di macchie d'umidità: una collezione di
sgorature che ora, rinfrescate dalla stagione delle piogge, formano un
mosaico di costellazioni, un interminabile collage di segni, arabeschi e mappe
fantastiche. Il centro della città è fitto di costruzioni. Traffico, calca,
frastuono: la vita si svolge tutta nelle strade, delimitate ai due lati da scoli di
fogne a cielo aperto. Non esistono marciapiedi. Sulla carreggiata, automobili
che circolano tra la folla: una fiumana di passanti, auto, biciclette, carretti di
facchini, capre e mucche che avanzano tutti assieme. Ai lati della strada, di là
dai rigagnoli, ferve la vita economica e familiare. Le donne pestano la
manioca, arrostiscono sul carbone tuberi di taro, cucinano pietanze, vendono
gomme da masticare, biscotti e aspirina, lavano e asciugano la biancheria.
Tutto in vista, quasi vigesse l'obbligo di uscire di casa alle otto del mattino e
di riversarsi nelle strade. Ma la ragione vera è un'altra: le abitazioni sono
piccole, misere, anguste. Si soffoca, non c'è corrente, l'aria è pesante, l'odore
nauseabondo, manca il respiro. Inoltre, rimanendo per strada dalla mattina
alla sera, si partecipa alla vita sociale. Le donne parlano continuamente tra
loro, gridano, gesticolano, poi ridono. Piazzate davanti a una pentola o a una
catinella godono di un punto d'osservazione privilegiato che permette loro di
controllare i vicini, i passanti, la strada, ascoltare liti e pettegolezzi, vedere
quel che succede. Si passa la giornata all'aperto, in movimento, tra la gente.
Per queste strade gira una Ford rossa con l'altoparlante sul tetto. Una
sonora voce gracchiante invita a partecipare al comizio di cui sarà attrazione
principale Kwame Nkrumah-Osagyefo, premier del Ghana, leader dell'Africa
e di tutti i popoli oppressi. Le foto di Nkrumah campeggiano ovunque: sui
giornali (quotidianamente), sui manifesti, sulle bandierine, sulle gonne di
cotone lunghe fino ai piedi. Un'energica faccia d'uomo di mezz'età, seria o
sorridente a seconda dei casi, ripresa in modo da suggerire che il capo guarda
al futuro.
"Nkrumah è il nostro salvatore! " mi dice con voce vibrante d'ammirazione
il giovane insegnante Joe Yambo. "Hai sentito come parla? Sembra un
profeta!"
Sì, l'avevo sentito. Era venuto per un comizio nello stadio locale, seguito
da un codazzo di ministri giovani e vivaci che comunicavano un'impressione
di gente allegra, ben disposta. La manifestazione era cominciata con i
sacerdoti che, bottiglia di gin alla mano, aspergevano il podio: un'offerta agli
spiriti, un modo di entrare in contatto con loro, di procurarsene il favore. A
questi comizi partecipano ovviamente gli adulti, ma c'è anche un'infinità di
bambini: dai lattanti portati dalle madri sulla schiena, a quelli che appena
appena gattonano, fino ai più grandicelli e agli scolaretti. Dei piccini si
occupano i più grandi, dei più grandi i più grandi ancora. Questa gerarchia
dell'età viene rigidamente rispettata e l'ubbidienza è assoluta. Un bimbo di
quattro anni ha pieni poteri su uno di due, e uno di sei su uno di quattro. I
bambini si occupano dei bambini, i più grandicelli sono responsabili dei più
giovani e gli adulti possono dedicarsi agli affari loro, come per esempio
ascoltare attentamente Nkrumah.
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