Contro un mondo senza amore – Susan Abulhawa

SINTESI DEL LIBRO:
Vivo nel Cubo. Scrivo come posso sulle sue pareti di blocchi di
cemento grigio lucido: prima con le unghie e adesso con le matite,
da quando le guardie mi procurano un po’ di materiale.
La luce proviene da una finestrella in vetrocemento, in alto sulla
parete, raggiungibile soltanto dall’esercito brulicante di bestioline
plurizampe con cui coabito. Mi sono affezionata ai ragni e alle
formiche, che si spartiscono i nove metri quadrati del nostro universo
comune senza mai incontrarsi. La luce del mondo là fuori, con sole,
luna e stelle, o forse soltanto lampadine fluorescenti – non ne sono
certa – attraversa la finestra formando un prisma che disegna sul
muro motivi rossi, gialli, blu e viola. Talvolta alla luce si
sovrappongono ombre di rami di alberi, di animali che passano, di
guardie armate o forse di altri detenuti.
Una volta ho cercato di raggiungere la finestra. Ho accatastato sul
letto tutto quello che avevo: un comodino, la scatola con l’occorrente
per lavarmi e i tre libri che mi avevano dato le guardie (le versioni
arabe di La lista di Schindler, Il manuale della felicità, e La risposta è
sempre la gratitudine). Mi sono arrampicata su quella pila di roba e
mi sono allungata più che potevo, ma non sono riuscita ad afferrare
altro che una ragnatela.
Quando avevo ancora unghie forti ed ero più in carne, ho provato
a segnare il tempo sul muro come fanno i detenuti, una linea per
ogni giorno, a gruppi di cinque. Ma presto ho capito che
l’avvicendarsi della luce e del buio nel Cubo non corrispondeva a
quello del mondo esterno. Saperlo è stato un sollievo, perché restare
al passo con la vita al di fuori del Cubo aveva iniziato a pesarmi.
Abbandonare i dettami del calendario mi ha aiutato a capire che il
tempo non è reale; che in assenza di speranza o di aspettative non
ha logica. Il Cubo è fuori dal tempo. Contiene invece una voragine
spalancata senza nome né presente, futuro o passato, che riempio
con l’immaginazione o con i ricordi.
Di tanto in tanto qualcuno viene a farmi visita. Porta addosso e nei
suoi discorsi l’atmosfera di un mondo in cui cambiano il tempo e le
stagioni; dove automobili, aerei, navi e biciclette trasportano le
persone da un posto all’altro; dove ci si riunisce per giocare,
mangiare, piangere o andare in guerra. I miei visitatori sono quasi
tutti bianchi. Sebbene io non possa distinguere il giorno dalla notte,
grazie a loro riesco a riconoscere le stagioni. In estate e in primavera
la loro pelle restituisce il bagliore del sole. Respirano tranquillamente
e portano con sé lo spirito della fioritura. In inverno arrivano pallidi e
spenti, con lo sguardo cupo.
Prima che mi venissero i capelli bianchi, le visite erano più
frequenti. Si trattava perlopiù di uomini d’affari dell’industria
penitenziaria (ebbene sì, esiste) che venivano a osservare il Cubo.
Quei guardoni ben vestiti mi facevano sentire come svuotata. I
reporter e gli attivisti per i diritti umani vengono ancora, anche se più
di rado. Dopo quella di Lena e della donna occidentale, le visite si
sono interrotte per un po’.
Quando la donna occidentale, che avrà avuto una trentina d’anni,
venne a intervistarmi, la guardia mi concesse di sedermi sul letto
invece di incatenarmi al muro. Non ricordo se fosse una reporter o
un’attivista per i diritti umani. Forse era una scrittrice. Apprezzai il
fatto che avesse con sé un’interprete, una giovane donna
palestinese di Nazareth. Certi visitatori non si sforzano per niente e
pretendono che parli inglese. Potrei farlo, naturalmente, ma non mi
riesce facile, e non me ne frega niente di essere accomodante.
Le interessava la mia vita in Kuwait e voleva parlare della mia
“sessualità”. Tutti vogliono conoscere la storia della mia fica. Sono
così presuntuosi che si permettono di usare parole che non
dovrebbero usare. Mi chiese se era vero che ero stata una
prostituta.
“Crede che la prostituzione abbia qualcosa a che fare con la
sessualità?” le chiesi.
Un velo di confusione le scese sul viso. “No, certo che no,” rispose
alla fine. “Andiamo avanti.”
Era alta e aveva i capelli castani, raccolti morbidamente sulla
nuca. Indossava dei jeans e una semplice camicetta color crema,
una giacca e comode scarpe nere. Niente trucco. Non mi piaceva.
Preferivo l’interprete, piccola e scura come me, che portava delle
Converse rosse con quattordici puntini neri disegnati sulla punta di
gomma bianca. Un punto, poi un gruppo di nove punti, poi altri
quattro punti: 194, il codice che usavamo per eludere la sorveglianza
israeliana. I messaggi segreti si nascondevano in ogni prima, nona e
quarta parola, che poi assemblavamo. Semplice ed efficace. È così
che ho capito che quella non era un’interprete qualunque. Lei, me lo
ricordo, si chiamava Lena.
All’inizio ero confusa. Il metodo 194 funziona soltanto con i
messaggi scritti. Non riuscivamo a contare, ascoltare, interpretare e
parlare contemporaneamente. Poi mi accorsi che Lena dava dei
colpetti con la matita mentre traduceva alcune parole. Deve aver
percepito il momento in cui me ne resi conto, poiché accennò un
sorriso. Le parole su cui continuava a picchiettare erano varianti di
“mangiare il biglietto”, “in bocca la carta” e “taccuino cibo”.
L’intervistatrice abbassò lo sguardo, come se non sapesse
cos’altro domandare. “C’è qualcosa di cui vorrebbe parlarmi?” mi
chiese.
Nei bei tempi andati, in un giorno come questo, avrei vagabondato
per le spiagge, i deserti e i centri commerciali del Kuwait.
“Zeit-o-za’atar,” esclamai.
“È lo spuntino palestinese?” chiese a Lena.
Lena annuì e la donna buttò giù qualche appunto, anche se si
vedeva che la storia non le interessava. Ma gliela raccontai
ugualmente.
“Quando vivevamo in Kuwait, i risultati del Tawjihi, l’esame di
maturità, venivano sempre pubblicati sui quotidiani, e non passava
anno in cui la maggior parte dei primi dieci diplomandi non fosse
palestinese. I kuwaitiani restarono particolarmente turbati l’anno in
cui i primi cinque furono tutti palestinesi, e cominciò a spargersi la
voce che noi palestinesi eravamo intelligenti perché mangiavamo
molto zeit-o-za’atar. Tutto il paese iniziò a ingozzarsi di zeit-oza’atar. Le provviste di za’atar nei negozi andavano a ruba.” Risi.
La donna occidentale si agitava di continuo mentre ascoltava la
traduzione di Lena. Continuai, ignorando la sua crescente
impazienza: “Sapevo che non era vero, perché mangiavo tanto
za’atar, eppure non andavo bene a scuola. In prima superiore mi
bocciarono perché non avevo la sufficienza in religione e in
matematica, mentre lo stesso anno proposero a mio fratello Jehad di
saltare la quarta elementare”. Nonostante siano stati anni più felici,
adesso li ricordo come drammatici e vorrei rassicurare la ragazza
che ero allora sul suo valore e sulla sua intelligenza, sul suo saper
imparare, le direi che non era affatto stupida come il mondo voleva
farla sentire.
La donna occidentale cercò di interrompermi, ma io continuai. “Per
un po’ provai a impegnarmi di più e chiesi a mio fratello minore di
darmi ripetizioni. Ma una volta che una scuola ti ha additato come
stupida, per quanto tu possa studiare, è difficile che cambi idea.”
“Suo fratello... ho letto che era...”
Non la feci finire. “Mio fratello è un genio,” dissi. Fissava il taccuino
nonostante avesse smesso di prendere appunti. Capii che delle mie
memorie d’infanzia non le importava nulla. “Non mi interessa quello
che ha letto su mio fratello. Jehad era dolce e vulnerabile,” dissi.
“Quando andava alle medie, scoprii che due ragazzi lo bullizzavano.
Radunai la mia banda di amiche, li aspettammo fuori dal cancello
della scuola e gli demmo una bella lezione. Da quel momento Jehad
mi guardò con ancora più ammirazione. Un’estate...”
La donna occidentale alzò la mano. Abbassò lo sguardo sul
taccuino, coprì le domande scritte con le mani, inspirò
profondamente chiudendo gli occhi per un momento
esageratamente lungo, come se stesse respirando con le palpebre,
e disse: “Ho letto da qualche parte che la notte in cui Saddam
Hussein invase il Kuwait lei fu vittima di uno stupro di gruppo”.
Inarcai il sopracciglio, e questo sembrò metterla a disagio. Con la
coda dell’occhio vidi le labbra di Lena sollevarsi quasi
impercettibilmente.
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