Causa di morte – sconosciuta – Tess Gerritsen

SINTESI DEL LIBRO:
A sette anni ho imparato l’importanza di piangere ai funerali. In quel
particolare giorno d’estate, l’uomo nella bara era il mio prozio Orson, degno
d’essere ricordato soprattutto per i sigari puzzolenti che fumava, l’alito
cattivo e la sfacciataggine delle sue flatulenze. Da vivo mi aveva
praticamente ignorata, e lo stesso avevo fatto io con lui, perciò quando era
morto non ero rimasta affatto addolorata. Non capivo perché dovessi andare
al suo funerale e, tuttavia, non era una scelta che una bambina di sette anni
avesse la libertà di fare. Quel giorno, annoiata e sudata nel mio abito nero, mi
ritrovai quindi sulla panca di una chiesa ad agitarmi e a chiedermi perché non
avessi potuto restare a casa con papà, che si era categoricamente rifiutato di
venire, dicendo che sarebbe stato ipocrita fingere di soffrire per un uomo che
lui disprezzava. Pur non conoscendo il significato della parola «ipocrita»,
sapevo che neanch’io volevo esserlo. E invece ero là, incastrata fra mia
madre e zia Sylvia, costretta ad ascoltare una sfilza di persone che tessevano
insulse lodi del mediocre zio Orson. «Un uomo fiero e indipendente!
Appassionato ai suoi hobby! Quanto adorava la sua collezione di
francobolli!»
Nessuno parlò del suo alito maleodorante.
Durante quel funerale infinito, mi divertii a osservare la testa delle persone
sedute davanti a noi. Notai che il cappello di zia Donna era cosparso di
forfora bianca, poi che zio Charlie si era appisolato e il parrucchino gli si era
spostato di lato, dando l’impressione che un grosso topo marrone stesse per
scivolargli giù dalla testa. Feci allora quello che qualsiasi bambina di sette
anni avrebbe fatto.
Scoppiai a ridere.
La reazione fu immediata. La gente si voltò a guardarmi con aria di
rimprovero. Mia madre, mortificata, mi affondò le unghie affilate nel braccio
e sibilò: «Smettila!»
«Ma gli sono caduti i capelli! Sembra un topo!»
Le unghie affondarono più in profondità. «Ne parliamo più tardi, Holly.»
A casa, però, non ne parlammo. In compenso, ci furono urla e uno
schiaffo, così imparai come ci si comporta a un funerale. Imparai che bisogna
avere un’aria cupa e stare in silenzio, e che a volte gli altri si aspettano di
vedere qualche lacrima.
Quattro anni dopo, al funerale di mia madre, mi ripromisi di spargere un
fragoroso fiume di lacrime, perché tutti si aspettavano quello da me.
Oggi però, al funerale di Sarah Basterash, non so se qualcuno si aspetti che
io pianga. Sono passati più di dieci anni da quando ho visto la ragazza che a
scuola conoscevo come Sarah Byrne. Non siamo mai state legate, quindi non
posso dire di piangere davvero la sua scomparsa. A essere sincera, sono
venuta al suo funerale a Newport solo per curiosità. Voglio sapere com’è
morta. Devo sapere com’è morta. «Che tragedia spaventosa», mormorano
tutti attorno a me, in chiesa. Il marito di Sarah era fuori città, lei ha bevuto
qualche bicchiere e si è addormentata con una candela accesa sul comodino.
L’incendio che l’ha uccisa è stato una pura fatalità. Questo, almeno, è quello
che dicono.
Quello a cui voglio credere.
La chiesetta di Newport è piena, gremita di tutti gli amici che Sarah si era
fatta nella sua breve vita, in gran parte sconosciuti per me. Non conosco
nemmeno suo marito Kevin, che in circostanze più felici avrei potuto
considerare un uomo attraente con il quale provarci, ma oggi è davvero a
pezzi. È questo che fa, il dolore?
Mi giro a osservare la chiesa e scorgo un’ex compagna delle superiori,
Kathy; è seduta dietro di me, ha il viso chiazzato e il mascara sciolto dalle
lacrime. Quasi tutti, donne e uomini, piangono perché un soprano sta
cantando il vecchio inno dei quaccheri, Simple Gifts, che a quanto pare fa
sempre questo effetto. Per un attimo, io e Kathy ci guardiamo negli occhi: i
suoi lucidi e gonfi di lacrime, i miei freddi e asciutti. Sono cambiata così
tanto dai tempi delle superiori che dubito possa riconoscermi, invece lei resta
pietrificata e mi fissa come se avesse visto un fantasma.
Mi giro di nuovo, guardando davanti a me.
Al termine di Simple Gifts sono riuscita anch’io a farmi venire le lacrime
agli occhi, come tutti gli altri.
Mi unisco alla lunga fila di presenti per dare l’ultimo saluto a Sarah e,
passando accanto alla bara chiusa, osservo la fotografia in mostra sul
cavalletto. Aveva soltanto ventisei anni, quattro meno di me, e nella foto è
vivace, sorridente, con le guance colorite: la stessa biondina carina che
ricordo dai tempi in cui ero la ragazza che nessuno notava, un’ombra che
restava sempre ai margini. Invece adesso sono qui, con la pelle ancora rosea,
mentre Sarah, la piccola e graziosa Sarah, è solo un mucchio d’ossa
carbonizzate in un contenitore. Sono sicura che lo pensano tutti, guardando la
foto di Sarah prima dell’incendio: vedono il suo volto sorridente e
immaginano la carne bruciata e il cranio annerito.
La fila avanza e io porgo le mie condoglianze a Kevin. «Grazie d’essere
venuta», bisbiglia lui. Non ha idea di chi io sia, né di come abbia conosciuto
Sarah, ma vede le mie guance rigate di lacrime e mi stringe la mano in segno
di riconoscenza. Ho pianto per sua moglie morta e questo basta a soddisfare i
requisiti.
Sguscio fuori dalla chiesa, nel vento freddo di novembre, e mi allontano a
passo svelto per non essere bloccata da Kathy o da altri conoscenti. Nel corso
degli anni, sono riuscita a evitarli tutti.
O forse sono stati loro a evitare me.
Sono soltanto le due del pomeriggio e, anche se il mio capo alla Booksmart
Media mi ha dato la giornata libera, valuto l’idea di tornare in ufficio per
smaltire email e telefonate. Lavoro come addetta stampa per una decina di
autori e devo organizzare appuntamenti con i media, spedire bozze, scrivere
lettere di presentazione. Prima di tornare a Boston, però, devo fare un’altra
sosta.
Vado a casa di Sarah, o meglio quella che era la sua casa e che ora è solo
macerie annerite, pezzi di legno carbonizzati e un mucchio di mattoni sporchi
di fuliggine. Lo steccato bianco che un tempo circondava il giardino anteriore
giace a terra distrutto, abbattuto dai vigili del fuoco per trasportare le scale e
le manichette dalla strada. All’arrivo delle autopompe, questo posto doveva
essere già un inferno.
Scendo dall’auto e mi avvicino ai resti dell’edificio. L’aria è ancora
impregnata di fumo. Rimango sul marciapiede e noto il debole luccichio di
un frigorifero di acciaio inox, sepolto in mezzo ai detriti color pece. Mi basta
dare un’occhiata al quartiere per capire che doveva essere una casa costosa e
mi chiedo che lavoro faccia il marito di Sarah o se provenga da una famiglia
benestante, fortuna che io di certo non ho avuto.
Le raffiche di vento trascinano via le foglie morte, facendole frusciare
contro le mie scarpe con un rumore che mi fa ripensare a un altro giorno
d’autunno di vent’anni fa, quando avevo dieci anni e avanzavo tra gli
scricchiolii del fogliame secco nel bosco. Quel giorno getta ancora ombra
sulla mia vita ed è il motivo per cui sono qui oggi.
Abbasso lo sguardo sull’omaggio reso a Sarah. La gente ha lasciato dei
fiori: un mucchio di rose, gigli e garofani avvizziti, un tributo floreale a una
giovane donna chiaramente molto amata. D’un tratto, noto qualcosa di verde
che sembra non appartenere a un mazzo di fiori, ma che ci è stato lasciato
sopra in un secondo momento.
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