Amore, Karma e altri Garbugli – Fabiana Redivo

SINTESI DEL LIBRO:
Di talento ne ho da vendere. Nel mettermi nei guai. Un paio d’ore
fa, preparare la valigia sembrava l’unica cosa giusta. Anche salire
sul pullman di linea New Haven-Boston nel cuore della notte.
Adesso invece non ne sono poi così sicura. Quasi quasi giro sui
tacchi e torno a casa. Chissà tra quanto partirà il prossimo pullman
per New Haven. Fa un freddo boia e dalla fermata a qui me la sono
dovuta fare a piedi. Trovare un taxi all’alba del primo gennaio può
essere un problema perfino a Boston. Se solo non facesse così
freddo! Non me ne starei ferma, aggrappata al manico del mio trolley
come una disperata a fissare la pulsantiera del palazzo. Due
targhette sulla stessa linea: Casa editrice Ink Emotions da una parte
e De Rosa dall’altra. Hanno un fascino quasi ipnotico. Basterebbe
suonare per raggiungere il mio rifugio sicuro e ne ho davvero
bisogno.
No. No, è sbagliato. È tutto sbagliato. Ho diciassette anni, dovrei
essere a casa con i miei genitori e non in mezzo alla strada, col
rischio di finire tra le grinfie di qualche maniaco. In giro non c’è
nessuno. Credo. Spero. Perché a quest’ora potrei incappare in solo
ubriachi o peggio. E con la fortuna che mi ritrovo… Basta, ho deciso.
Torno indietro. In fondo che sarà mai affrontare mamma e papà?
Non ho fatto niente di male. E solo a ricordare la mia ultima
disavventura mi monta la rabbia.
Volto le spalle al portone. Beacon Street è deserta. La luce dei
lampioni rende quasi iridescente il candore del marciapiedi. Fiocca
bene. Altra sfiga. Tirarsi dietro un trolley che affonda nella neve è il
massimo dei minimi, lo so perché trascinarmelo fin là è stato
penoso. Infatti, dopo mezzo isolato ho già il fiato corto. Il bello è che
fa così freddo che posso perfino vederlo il mio fiato. E subito oltre i
vapori densi che sputo come un drago asfittico, intravedo le chiome
di alcuni alberi scheletriti. Il Boston Public Garden non è lontano.
Bello il parco. Mi correggo: splendido. In qualsiasi stagione. Ma
d’inverno assume un aspetto quasi magico. Pattinare sul laghetto
ghiacciato è uno dei pochi piaceri della vita. Come la cioccolata.
Ho fame. Decisamente. Mi succede sempre quando sono nervosa
e adesso lo sono. Perché sto tornando a casa? No, ovunque fuorché
là. Passi per le arie da sufficienza di mia sorella Alyssia, ma di certo
mamma e papà finirebbero col prendersela con me per quello che mi
è successo. Perché io sono quella sbagliata, la buona a nulla che si
caccia sempre nei guai. Mica sono come Alyssia che eccelle in tutto,
le basta respirare. Lei è quella giusta, quella perfetta. Mai un capello
fuori posto. Io invece… al solo pensiero della mia forma, anzi,
sforma fisica, mi viene da piangere. No, no… niente lacrime…
oltretutto col freddo che fa si ghiaccerebbero. E poi ho pianto
abbastanza. Nuovo cambio di programma: non tornerò sui miei
passi. Certamente non rientrerò a casa.
Mi fermo brusca e il trolley obbedisce docile. I miei piedi no. Sono
finiti sull’unica lastra di ghiaccio nascosta sotto allo strato di neve.
Scivolo. Annaspo. Cerco di rimanere in posizione verticale. Eh,
magari… l’equilibrio non è il mio forte. Agito il braccio libero perché
col cavolo che mollo il trolley! È la mia àncora di salvezza. Forse.
«No!» grido disperata.
Il maledetto mi tradisce. Barcolla anche più di me e con tutto il suo
peso mi trascina in basso senza pietà. Mi schianto a terra lunga
distesa sulla schiena.
«Cazzo!» ringhio dolorante.
Ci sta. Non mi lascio andare facilmente alle parolacce, ma questa
volta proprio ci sta. Dio, che male! Il mio angelo custode è
perennemente in ferie? Si sarà arreso perché sono troppo sfigata.
Per fortuna, stavolta nessuno mi ha vista mentre facevo l’ennesima
figura marrone. In compenso nessuno mi soccorrerà mentre tento di
rialzarmi.
Rotolo. Letteralmente. E mentre mi metto carponi, ringrazio il fatto
di avere della ciccia di troppo. Niente ossa rotte. Pazienza per i lividi,
a quelli ho fatto l’abitudine.
È un segno.
Decido che è così. Il destino vuole che io rimanga a Boston.
Riacchiappo il trolley traditore con una smorfia. Le mie povere
chiappe… Niente da fare, posso solo arrancare zoppicando verso il
portone e suonare il campanello di zia Molly.
Molly De Rosa, la sorella di mia madre. L’altra pecora nera della
famiglia. Forse per questo mi piace stare con lei. A volte penso di
essere nata dalla De Rosa sbagliata. Non solo condividiamo il
naturale talento per finire nei guai, ma anche l’amore per la scrittura.
Questo però a zia Molly ancora non l’ho confessato. Forse stavo
solo aspettando l’occasione giusta. Ebbene, è arrivata. Il primo
gennaio dell’anno 2009 deve per forza segnare una svolta nella mia
vita. Deve. Ultimo treno. L’imperativo categorico mi spinge a pigiare
il pulsante del campanello con energia. Fin troppa. In quella
palazzina ci vive solo lei, perciò sarà l’unica a essere buttata giù dal
letto.
So che le starà prendendo un colpo, ma comincio a non sentire
più le dita dei piedi. Insisto quasi con rabbia. Deve essere in casa.
Nel modo più assoluto. Anche perché il mio cellulare è morto.
Scaricato miseramente durante il tragitto in pullman.
Minuti di silenzio irreale.
«Chi è?»
Sussulto e guardo verso l’occhio della telecamera. Mi può vedere
solo lei. La voce assonnata, al videocitofono, mi fa subito montare
inutili sensi di colpa.
«Zia Molly, sono Vera... aprimi, ti prego...»
Il silenzio solleva molti dubbi, forse non avrei dovuto rifugiarmi da
lei. Ma è un attimo.
«Vera! Sei sola?»
«Ti prego, zia… sto gelando!»
«Sali.»
Il pesante portone si apre con uno scatto secco. Di certo deve
aver disattivato l’allarme. Entro trascinandomi dietro un soffio di aria
gelida e neve. Al piano terra ci sono gli uffici della Ink Emotions,
profumano di scartoffie, inchiostro e libri. Con la valigia a traino,
salgo faticosamente le scale fino al primo piano, e mi fermo davanti
alla porta aperta dell’appartamento.
Zia Molly mi squadra. È ancora molto bella, nonostante i suoi
quarant’anni, le occhiaie, l’assenza di trucco e i capelli in disordine.
E se prima la sua voce mi era apparsa preoccupata, adesso il suo
sguardo è a dir poco esterrefatto alla vista della valigia che mi sto
tirando dietro.
«Entra, signorina. E dimmi che tra poco si affaccerà da quella
porta anche il resto della tua famiglia.»
Emergo come una tartaruga dalla lunga sciarpa che porto avvolta
attorno al collo e al berretto.
«Io... sono sola» ammetto a testa bassa.
«Idea magnifica quella di presentarti qui a Capodanno senza
preavviso.»
Sì, la zia è decisamente alterata.
«Se non mi avessi trovata, che avresti fatto?» chiede lasciandomi
inerme sul pianerottolo. «Saresti passata al piano B? Perché ce l’hai
un piano B, giusto?»
«Tu non festeggi mai il Capodanno. Lo ripeti in continuazione. Ti
eri sposata a Capodanno, ma il tuo matrimonio è fallito.»
«Grazie per avermelo ricordato» replica con una smorfia. «Che ne
sai delle mie abitudini? Ci vediamo sì e no tre volte all’anno. Avrei
potuto non essere in casa o non essere sola. Sono tante le cose che
non sai su di me» dice con enfasi, ma legge la mortificazione nel mio
sguardo e cambia subito argomento. «I tuoi sanno che sei a
Boston?».
«Sono partita stamattina all’alba. Sapevo che c’era un pullman da
New Haven per Boston e così l’ho preso.»
«La mia domanda era un’altra» sottolinea la zia aiutandomi a
togliere il piumino come quando ero bambina. «I tuoi lo sanno che
sei qui?»
«Ho scritto un biglietto.» Maledizione, mi salgono le lacrime agli
occhi. Stavo andando così bene! «Ma non credo che lo troveranno
tanto presto» aggiungo sottovoce.
«Ci credo! È l’alba del 1° gennaio. Forse si alzeranno in tempo per
il pranzo. Togli il berretto.»
D’istinto faccio un passo indietro.
«No!» sbotto.
Zia Molly deve essersi accorta dell’angoscia nel mio sguardo.
«Perché, che hai combinato ai capelli?»
«Nulla» sibilo cercando di trattenere invano le lacrime. Mi
pizzicano sulla pelle del viso. Dev’essere a causa dell’escursione
termica. Devo avere un aspetto orribile.
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