Al di là del bene e del male – Friedrich Nietzsche

SINTESI DEL LIBRO:
La volontà di verità, che ci sedurrà ancora a parecchie temerarietà,
quella famosa veridicità di cui tutti i filosofi fino a oggi hanno parlato
con venerazione: quali domande ci ha già posto questa volontà di
verità! Quali singolari malvagie problematiche domande! Si tratta già
di una lunga storia, – e tuttavia non sembra che sia appena iniziata?
Che meraviglia, se alla fine, per una volta, diventiamo diffidenti,
perdiamo la pazienza, ci rivoltiamo spazientati? Che noi a nostra
volta si debba imparare da questa Sfinge a domandare? Chi è
propriamente che ora ci pone domande? Che cosa in noi vuole
propriamente “la verità”? – In effetti, ci siamo soffermati a lungo di
fronte alla domanda sulla causa di questo volere, – finché, alla fine,
ci siamo fermati completamente di fronte a una domanda ancor più
fondamentale. Abbiamo messo in questione il valore di questa
volontà. Posto che noi vogliamo la verità: perché non piuttosto la
non-verità? E l’incertezza? E perfino l’ignoranza? – Il problema del
valore della verità ci è venuto dinanzi, – oppure fummo noi a porci
davanti a questo problema? Chi di noi è qui Edipo? Chi la Sfinge? È
un incontro, come pare, di domande e punti di domanda. – E si
potrebbe credere che alla fine abbiamo l’impressione che il problema
non sia mai stato finora posto, – come fosse stato per la prima volta
visto, guardato negli occhi, osato da noi? Poiché esso comporta un
rischio, e forse non ce n’è uno maggiore.
2.
“Come potrebbe qualcosa sorgere dal suo contrario? Per esempio
la verità dall’errore? O la volontà di verità dalla volontà d’illusione? O
l’azione disinteressata dal proprio utile? O la pura, solare
contemplazione del saggio dalla concupiscenza? Una tale origine è
impossibile; chi la sogna è un folle, anzi peggio; le cose di più alto
valore devono avere un’altra, una propria origine, – non possono
essere fatte discendere da questo mondo transitorio, seduttore,
ingannevole, miserabile, da questo guazzabuglio di follia e avidità!
Piuttosto in grembo all’essere, nell’imperituro, nel dio nascosto, nella
‘cosa in sé’ – là deve stare la loro origine, e in nessun altro luogo!” –
Questo modo di giudicare costituisce il tipico pregiudizio dal quale si
possono riconoscere i metafisici di tutti i tempi; questo tipo di
apprezzamenti di valore sta sullo sfondo di tutte le loro procedure
logiche; a partire da questa loro “fede” si sforzano di arrivare al loro
“sapere”, a qualcosa che alla fine viene solennemente battezzato “la
verità”. La fede di fondo dei metafisici è la fede nella
contrapposizione dei valori. Neppure ai più cauti tra loro è accaduto
di dubitare già su questa soglia, dove era massimamente
necessario: perfino se avevano lodato il “de omnibus dubitandum”.
Si può infatti dubitare, per prima cosa, che esistano in generale
contrapposizioni, e per seconda, che quegli apprezzamenti di valore
popolari e antitesi tra valori, sui quali i metafisici hanno apposto il
loro sigillo, non siano forse altro che valutazioni pregiudiziali, solo
prospettive provvisorie, forse scaturite da un angolo, forse dal sotto
in su, prospettive da rana, per prendere a prestito un’espressione
corrente tra i pittori? Malgrado ogni valore che può ricevere il vero, il
veritiero, il disinteressato: sarebbe possibile che alla parvenza, alla
volontà d’illusione, all’interesse personale e all’avidità si dovesse
attribuire un valore superiore e più fondamentale per ogni vita.
Sarebbe perfino possibile che ciò che costituisce il valore di quelle
cose buone e venerate consistesse proprio nell’essere
ingannevolmente apparentate, annodate, agganciate con quelle
cose cattive, apparentemente contrapposte, forse di essere
addirittura loro essenzialmente simili. Forse! – Ma chi vorrà
occuparsi di tali pericolosi forse! Per far ciò si deve attendere l’arrivo
di una nuova specie di filosofi, che abbiano gusti e inclinazioni in
qualche modo diversi e opposti di quelli avuti fino a oggi, – filosofi
del pericoloso forse, in ogni senso. – E detto in tutta serietà: io vedo
avvicinarsi questi nuovi filosofi.
3.
Dopo aver sufficientemente a lungo letto tra le righe ed esaminati
tra le dita i filosofi, mi dico: si deve ancora annoverare la maggior
parte del pensiero cosciente tra le attività dell’istinto, anche nel caso
del pensiero filosofico; si devono qui cambiare le nostre concezioni,
come si è fatto a proposito dell’ereditarietà e dell’“innatismo”. Come
l’atto della nascita non può essere preso in considerazione nel
processo e nel progresso dell’ereditarietà: così altrettanto poco
l’“esser cosciente” può essere contrapposto in qualunque senso
decisivo all’istintivo, – la maggior parte del pensiero cosciente di un
filosofo è guidata segretamente dai suoi istinti e costretta in binari
determinati. Anche dietro ogni logica e la sua apparente autonomia
di movimento stanno giudizi di valore o, detto con maggior
chiarezza, esigenze fisiologiche per il mantenimento di una
determinata specie di vita. Ad esempio, che il determinato abbia
maggior valore dell’indeterminato, che la parvenza abbia minor
valore della “verità”: tali valutazioni, pur con tutta l’importanza
regolativa per noi, potrebbero essere tuttavia solo valutazioni
pregiudiziali, una specie particolare di niaiserie, come può essere
appunto necessaria per la conservazione della specie che noi siamo.
Posto infatti che non sia proprio l’uomo la “misura delle cose”…
4.
La falsità di un giudizio per noi non è ancora un’obiezione contro di
esso; qui il nostro nuovo linguaggio suona forse nel modo più
estraneo. La questione è fino a che punto esso promuova la vita, la
conservi, conservi la specie e addirittura forse ne disciplini la
crescita; e noi siamo in linea di principio inclini a sostenere che i
giudizi più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici a priori) sono
per noi i più indispensabili, che senza un mantenimento delle finzioni
logiche, senza un commisurare la realtà al mondo completamente
inventato dell’incondizionato, dell’uguale-a-se-stesso, senza
un’incessante falsificazione del mondo attraverso il numero, l’uomo
non potrebbe vivere, – che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe
rinunciare alla vita, una negazione della vita. Ammettere la nonverità come condizione di vita: questo significa certamente opporre
resistenza in maniera pericolosa agli abituali sentimenti di valore; e
una filosofia che osa questo, si pone soltanto con ciò al di là del
bene e del male.
5.
Ciò che ci stimola a guardare tutti i filosofi metà con diffidenza,
metà con scherno, non è il fatto che sempre più si scopra quanto
siano ingenui – quanto spesso e facilmente si sbaglino e si
confondano, in breve il loro infantilismo e la loro puerilità –, bensì
che non vi è in loro abbastanza onestà: mentre invece tutti insieme
levano un grande e virtuoso strepito, non appena il problema della
veridicità viene sfiorato anche solo da lontano. Si presentano tutti
come se avessero scoperto e raggiunto le proprie opinioni tramite lo
sviluppo autonomo di una dialettica fredda, pura, divinamente
imperturbabile (a differenza dei mistici di ogni rango, che sono più
genuini e sciocchi di loro – questi parlano di “ispirazione” –): mentre,
in fondo, una tesi assunta in precedenza, una trovata, una
“suggestione”, per lo più un desiderio del cuore reso astratto e filtrato
viene da essi difeso con ragioni cercate a posteriori: – sono tutti
quanti avvocati che non vogliono essere chiamati così, e davvero
per lo più astuti patrocinatori dei loro pregiudizi, che essi battezzano
“verità” – e molto lontani dall’audacia della coscienza, che questo,
proprio questo confessa a se stessa, molto lontani dal buon gusto
dell’audacia, che pure questo fa comprendere, che sia per avvertire
un nemico o un amico, che sia per tracotanza e per schernire se
stessi. La tartuferia tanto rigida quanto virtuosa del vecchio Kant,
con la quale egli ci attira sulle vie tortuose della dialettica, che
conducono o meglio seducono al suo “imperativo categorico” –
questo spettacolo fa sorridere noi smaliziati, che troviamo un non
piccolo piacere nell’osservare da vicino le sottili astuzie di vecchi
moralisti e predicatori di morale. Oppure anche quello hocuspocus
3
in forma matematica, con cui Spinoza mascherava la sua filosofia,
corazzandola di bronzo – “l’amore per la propria saggezza” cioè,
interpretando queste parole in modo giusto e ragionevole – per
scuotere con ciò fin dall’inizio il coraggio dell’aggressore che osasse
gettare lo sguardo su questa invincibile vergine e Pallade Atena: –
quanta della sua timidezza e vulnerabilità tradisce questa
mascherata di un malato solitario!
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