Una notte non è per sempre – Kat Sherman

SINTESI DEL LIBRO:
Mi faccio largo tra la gente, sgomitando e slittando con le suole sul
marciapiede allagato, e finalmente riesco a conquistare l’agognato
traguardo. «Il solito, grazie!» chiedo in affanno sotto la pensilina, mentre la
pioggia viene giù da un’omogenea distesa color cemento.
Il caffè di Carlos è il migliore di tutta la città. Rinunciarci è fuori
discussione. Neanche se l’alternativa è consegnare la mia messa in piega a
una morte certa per annegamento. Se non ne mando giù almeno un paio,
con dentro tre zollette e uno sproposito di cannella, rischio di strangolare
qualcuno col filo del telefono. Proprio così: esistono ancora arnesi dotati di
quel coso nero e ingarbugliato. A quanto pare, nel grattacielo che ospita i
prestigiosi uffici del gruppo editoriale Holder Magazines, la tecnologia
migra verso l’alto come l’aria calda e le mongolfiere.
Attraverso la strada correndo, e un violento colpo di clacson mi perfora
un timpano. Urlo una parola di scuse, senza neppure voltarmi, ed entro di
volata nell’atrio mastodontico del palazzo, tenendo in precario equilibrio la
colazione da asporto.
Rivolgo un cenno di saluto alla donna seduta dietro la massiccia
reception generale e ricevo in cambio la solita occhiataccia. Sono sicura che
detesta con fervore le mie mèches rosa e il fatto che lavoro nel seminterrato
dell’edificio, esattamente come qualcuno che non ce l’ha fatta. Non conta
quanto ci abbia provato, non conta che abbia solo ventitré anni e tutta la vita
davanti, non conta quanto sudi sgobbando tutti i giorni.
«Non siamo tutte fortunate come te, razza di super modella plasticosa e
con problemi di fegato» borbotto filando nell’ultimo ascensore.
Prorompo in un sospiro mentre la cabina comincia la sua fluida discesa
verso il basso.
Nello specchio davanti a me, una ragazza dall’aria esausta, con troppi
capelli e con la giacca miseramente zuppa, mi fissa di rimando. La nail art
nuova di zecca – piccole faccette di panda sorridenti – è aggrappata ai
bicchieri d’asporto. È una vera forza. Ma il resto è un totale disastro: sono
fradicia come un prato scozzese. Fortuna che il mascara che ho trafugato
stamattina dalla borsetta griffata di Lou è dinamite-proof. O un altro panda
avrebbe fatto compagnia a quelli sulle unghie.
Le porte dell’ascensore si aprono e una folata di familiare aria stantia mi
satura le narici. Svolto l’angolo in fretta ed entro in sala, imbattendomi
subito nell’espressione torva di Lou.
Parli del diavolo...
«Sì, lo so, sono in ritardo. Ti chiedo umilmente scusa, tipo un milione di
volte. Un miliardo!»
«Il cane ti ha mangiato i compiti?»
«Mi ha mangiato la sveglia, ma vengo in pace e con dei doni.» Allungo il
triste caffè con latte di soia verso di lei. Le sue dita abbracciano il cartone
con sospetto. «E c’è un donut per te nella busta. Tranquilla, te ne ho preso
uno senza granella colorata artificialmente.»
«Io non mangio quella roba. Con o senza zuccherini.»
Già, lei è fra quelle persone col pallino per il fitness senza frontiere, il
gluten-free, le spremute detossinanti e i prodotti con certificazione bio. La
conosco ormai da tre anni, e la sua crociata contro le ciambelle non ha mai
subìto la minima flessione: è un rigoroso generale pluridecorato nella
sanguinosa lotta al carboidrato.
«Un donut non ha mai ucciso nessuno» ribatto con un sorriso, sedendomi
alla mia scrivania.
«Lo ha fatto, invece. Ma molto lentamente. In modo subdolo.»
«Ora capisco perché ai tuoi occhi sono una specie di fata benevola in
licenza da una favoletta dei fratelli Grimm: tu riesci a vedere della cattiveria
persino in un prodotto da forno! E per la cronaca, cara Louise, respirare
l’aria nera di New York equivale a fumare un pacchetto di sigarette al
giorno, non lo sapevi? Era sull’ultimo numero di Independent.»
«Non chiamarmi Louise o saranno guai. E a proposito di guai... Ti sei
messa il mio mascara, per caso? Sembri un cerbiatto molto, molto
colpevole.»
Scuoto la testa in fretta e addento la ciambella.
Lou alza gli occhi al cielo e si siede alla sua postazione da responsabile
del reparto. Io mi preparo a riordinare le idee. Non che ne servano poi molte
per gestire e monitorare database e impilare fascicoli nell’enorme archivio
cartaceo.
Sono circa mille giorni che lavoro qui.
Quando sono arrivata nella Grande Mela da Lanesboro, avevo un
mucchio di progetti. Per prima cosa, avrei finito gli studi, poi sarei entrata
in una società fiorente e avrei scritto per una testata giornalistica
importante, convinta che le parole giuste possano fare un’enorme differenza
nella vita delle persone.
Mentre ero ancora all’università, aver trovato un lavoretto nell’archivio
della Holder Magazines mi sembrava un sogno. Peccato per le trappole
invisibili disseminate dappertutto nel contratto: possibilità di avanzamento
dopo ottantacinque anni, acari della polvere ovunque e una lotta continua
contro la quinta essenza della noia. E il sogno si è trasformato presto nel
suo contrario. Come se non bastasse, la società che finanziava la mia borsa
di studio è fallita, e tutto ciò che mi rimane è far parte di questo obsoleto
ingranaggio, nel luogo remoto dove finisce la carta di cui nell’era digitale
non importa più a nessuno.
Con la musica nelle orecchie, porto avanti il lavoro senza picchi di
entusiasmo.
La pioggia scorre sui rettangoli di vetro adiacenti al soffitto. La osservo e
di tanto in tanto mi smarrisco nell’immaginazione, contemplando il viavai
di scarpe frettolose fuori dalle finestre.
In compenso non ho mai mollato. Anzi, quello che ho fatto in questo
angolino sotterraneo è stato impegnarmi per mettere da parte più soldi
possibile per ricostruire quella speranza che si è spezzata. Almeno finché
non si è spezzato anche qualcosa nel cuore di papà, e i miei risparmi sono
finiti dritti a Lanesboro per dare una mano alla mia famiglia con le spese
mediche.
Sono talmente assorta nell’atto di passare alcune vecchie copertine nello
scanner, che la mano di Lou sulla spalla mi fa letteralmente saltare sulla
sedia. Mi sfilo le cuffie di peluche e le getto sulla scrivania. «Mi hai fatto
prendere un colpo!»
«Sì, ma per una giusta causa.»
Le rivolgo un’occhiata interrogativa, senza troppa fretta di rimettermi al
lavoro.
«Senti, Maya, non puoi continuare così. Questo posto ti sta logorando
dall’interno.»
Oh, no. Il Discorso.
«Come quel parassita che Grayson del reparto informatico ha beccato
nella foresta amazzonica?» osservo in tono fiacco, sperando di smorzare
subito l’argomento.
«Esatto!» Preme sul petto un’unghia decorata da una perfetta french
manicure. «Io adoro l’archivio e adoro impartire ordini ai novellini che qui
dentro invecchieranno, ma tu non appartieni a questo posto. Sei tutta
un’altra storia.
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