Tabula rasa – Mary Durante

SINTESI DEL LIBRO:
Il pavimento gli stava scorticando le ginocchia. Senza nemmeno un
tappeto, le ruvide assi ineguali gli segnavano la pelle, insinuando stilettate
a ogni minimo movimento. Agli angoli del suo campo visivo, colse un cenno
da parte dell’uomo che lo possedeva.
«Vieni qui.»
Non provò nemmeno ad alzarsi in piedi. Gli erano stati sufficienti i
tentativi dei primi giorni, seguiti da punizioni che gli avevano reso schiena
e natiche un’agonia, per capire di non potersi comportare da normale
essere umano.
Invece avanzò carponi, la testa china e incassata tra le spalle come per
proteggersi, mentre cercava di non pensare. Il tragitto che lo portò tra le
gambe aperte del suo padrone, per quanto doloroso, terminò troppo presto.
Non appena lui si aprì i pantaloni, rivelando un uccello già duro, si
mise al lavoro senza avere bisogno di un ordine diretto. Lo prese tra le
labbra, cominciò a succhiare e chiuse gli occhi, sperando che, se fosse
stato abbastanza bravo, se lo avesse soddisfatto, allora forse la punizione
per la sua semplice esistenza sarebbe stata posticipata a un altro giorno.
Una mano pesante comparve a guidarlo, spingendogli la nuca per
costringerlo ad aumentare il ritmo, a lasciarsi scopare la bocca,
reprimendo ogni suo desiderio di ritrarsi.
Quello era lui: il loro giocattolo, un corpo su cui rifarsi, da segnare a
loro piacimento, da scopare, abusare e a cui forse, in rari momenti di buon
umore, concedere una gentilezza.
«Hai imparato bene, non è vero?» commentò il suo padrone, con una
risata che si spense in un gemito.
E lui fece del suo meglio per tenere la bocca spalancata e trattenere i
conati, mentre l’uccello lo violava, scendendogli in gola, facendogli
spuntare le lacrime per la profondità di quegli affondi.
Come se provenissero da lontano, udì delle risate, qualche
apprezzamento da parte degli altri ospiti e anche un lento applauso. Strizzò
le palpebre per tenerli fuori dalla propria realtà, concentrandosi solo sul
compito di respirare, reprimere la nausea e compiacere l’uomo che avrebbe
potuto ucciderlo per puro capriccio. Dopo un tempo che gli parve infinito,
sentì la stretta sui suoi capelli diventare più crudele, le spinte più
irregolari, nel preludio della conclusione di un simile tormento.
Poi, quando ormai faticava a riprendere fiato, l’orgasmo gli riempì la
bocca, caldo e rivoltante, come aveva fatto infinite volte nei giorni passati.
Subito il suo padrone gli diede uno strattone crudele, attirandolo contro il
proprio ventre fino a quando il suo naso non venne solleticato dai peli
dell’inguine, le vie respiratorie del tutto bloccate dal cazzo che gli invadeva
la gola. Ebbe un conato, lottando contro l’impulso di tossire e sfidare la
stretta sui capelli, teso in tutto il corpo nello sforzo di controllarsi.
Lo attraversò uno spasmo, poi deglutì la nausea assieme allo sperma,
con il bisogno di respirare che rendeva ogni istante lungo quanto un
minuto.
«Così, manda giù tutto. Osa sputare anche solo una goccia, e ti scuoio
il culo a suon di frustate,» lo minacciò il suo aguzzino, mentre i polmoni
cominciavano a bruciargli per la mancanza d’aria.
E poi finalmente la morsa scomparve, permettendogli di allontanarsi
per riprendere fiato. Annaspò alla ricerca d’ossigeno, con le labbra e la
gola dolenti, le lacrime che gli rigavano le guance. Aveva ancora la bocca
invasa dal suo sapore, ma era riuscito a obbedirgli.
Un pollice scese ad asciugargli la scia umida che gli solcava uno
zigomo.
«Brava la mia puttana. E ora come si dice?»
«Grazie, Master,» mormorò automaticamente, con voce spezzata.
Ma sapeva che non sarebbe finita così. Quando il suo padrone
desiderava che presenziasse a quelle cene, non finiva mai tanto presto.
Dalla guancia, quel tocco di una gentilezza derisoria si spostò sulla
nuca, in una carezza distratta.
«Visto? Ve lo avevo detto che l’ho reso il mio cagnolino.» Di nuovo le
dita si strinsero ai suoi capelli per costringerlo a girare la testa, così da
ostentarlo alla sala di uomini e donne che avevano assistito alla scena.
«Potete fargli ciò che volete. Godervelo, frustarlo, farlo strisciare. E lui
sarà pronto a ringraziarvi e a supplicarvi di usarlo ancora.»
«È una proposta?» commentò la voce divertita di uno sconosciuto.
Lui si azzardò a lanciargli uno sguardo con la coda dell’occhio.
A parlare era stato un uomo giovane, che non aveva mai visto prima,
con una corta barba e l’espressione crudele.
«Perché no? Il suo culo è solo mio, ma con la sua bocca sono
generoso, soprattutto con i nuovi soci. Se vuoi, puoi fartelo succhiare anche
ora.»
«Senza nemmeno una presentazione?» sogghignò lo sconosciuto,
slacciandosi i pantaloni.
Un altro scoppio di risate, e poi il suo padrone lo strattonò in modo
che tornasse a girarsi verso di lui.
«Hai sentito? Isak vuole una presentazione. Perché non gli dici chi
sei?»
«Non sono nessuno, Master.»
Sulle labbra del suo padrone si disegnò un sorriso.
«Bravo.»
Ma in profondità dentro di sé, dove ancora esisteva parte del ragazzo
che era stato, lui sapeva di aver detto una bugia. Aveva avuto un nome, un
tempo. Un nome normale, non uno di quei vezzeggiativi o una delle offese
con cui lo chiamavano i suoi aguzzini.
E mentre un altro cazzo gli violava la bocca, subito seguito da dita
simili ad artigli che gli strattonavano i capelli, sapeva che, ogni tanto,
riusciva quasi a ricordarlo.
Riaprì gli occhi di scatto, le tenebre del suo sonno lacerate da un unico,
vivido pensiero.
Tyler. Mi chiamo Tyler.
Sbatté le palpebre, mentre cercava di respirare.
Con il cuore che rischiava di sfondargli la cassa toracica, si costrinse a
rimanere immobile, lasciando che gli strascichi di quell’incubo si
dileguassero nel silenzio. Fu l’assenza di voci e risate, e dell’onnipresente
odore di fumo, a restituirgli infine il controllo sui propri polmoni.
Dentro e fuori, per scacciare il panico che ancora incombeva sulla sua
mente, minacciando di togliergli quell’accenno di lucidità.
Dentro e fuori.
Quando il respiro riuscì a tornare regolare e non più un affannoso
annaspare alla ricerca d’aria, gli abusi che avevano accompagnato il suo
sonno si erano dissolti, lasciandolo a fissare un soffitto sconosciuto. Niente
sbarre, niente muri asettici, ma delle travi e un ambiente dall’aspetto
rustico.
Per un lungo attimo di speranza, si ritrovò quasi a credere che quegli
orribili minuti fossero stati un’illusione del subconscio, nata dalle sue paure
peggiori.
Non era più lì, e in quel momento sperava con tutto se stesso di non
esserci mai stato. Adesso non udiva più nessuno, c’era un materasso
morbido sotto la sua schiena – e la schiena gli faceva male, così come le
natiche, così come la bocca, quindi non poteva essere stato davvero un
incubo, non solo, ma ormai era passato, aveva bisogno di quell’illusione per
non spezzarsi.
Soprattutto, non si trovava all’interno della gabbia dove veniva
rinchiuso dopo che aveva divertito il suo padrone e i suoi ospiti.
Chi lo aveva portato in quel luogo lo aveva fatto stendere su un letto
vero e proprio, concedendogli un comodo cuscino che ora gli stava
sorreggendo la testa e perfino una coperta.
Trattandolo come una persona, non un animale.
Poi lo sentì: un anello di metallo attorno al polso, che lo ancorava al
letto. Sentì l’odore di disinfettante, si rese conto di essere nudo, sotto al
conforto di quella calda coperta, e vide la porta chiusa, simile a quella di
una prigione.
Ovunque si trovasse, quella non era la salvezza, non era un ospedale,
solo l’inizio di un altro incubo.
E allora, dietro alle labbra serrate, la sua mente cominciò a urlare.
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