Storia della mia ansia – Daria Bignardi

SINTESI DEL LIBRO:
Shlomo sostiene che innamorarci sia stata una disgrazia. La prima volta che
l’ha detto mi ha ferita, poi ho capito che aveva ragione: insieme siamo
infelici.
Credo di soffrire più di lui per quest’amore disgraziato, ma chi lo sa cosa
provano veramente gli altri, cosa prova persino tuo marito.
Shlomo non parla delle sue sofferenze: pensa che farlo sia indecente, o ha
imparato a fingere che non esistano. È il suo modo per difendersi da loro e da
me.
Forse Shlomo non soffre, tranne che per me, anche se lo ammette solo
quando gli dico che mi fa soffrire. Allora mi guarda stizzito, un lampo
scurisce i suoi occhi gialli e sibila: «E io credi che non stia male?». Non
spiega perché. Shlomo non si lamenta. Shlomo non chiede.
Insieme stiamo male, ma non possiamo lasciarci.
Dice che non mi lascerà mai, non so se per senso di responsabilità,
pigrizia, o perché mi ama più di quanto sia disposto a riconoscere.
Io non lo lascerò perché sono innamorata di lui, della sua grazia nascosta
come un minerale, del suo odore, del suo modo di parlare coi bambini.
Non lo sopporto ma lo amo. Shlomo è la mia croce.
Deve essermi toccato per punirmi di qualcosa che ho fatto in una vita
precedente, o da ragazza, quando spezzavo cuori senza neanche
accorgermene. Sono stata una figlia amata, anche se amata male, mentre non
ho mai visto la madre di Shlomo abbracciarlo: le rare volte che si
incontravano porgeva la guancia per farsela sfiorare con un bacio. Shlomo
sostiene che avere avuto una madre anaffettiva sia un vantaggio. Disprezza i
sentimentalismi, i sentimenti lo annoiano.
A volte penso che sia stato vaccinato dalla sua infanzia – della quale non
mi ha mai parlato – di bambino grasso. A tredici anni ha scoperto la palestra
e si è trasformato nell’uomo massiccio di oggi, ma è stato un bambino grasso,
con una madre rigida e un padre assente, ed è cresciuto in una comunità
ristretta e contadina: chissà se ha patito, se lo hanno preso in giro, se ha
dovuto combattere e imparare a difendersi. Quello che impari da bambino
non lo perdi più.
Nelle poche foto d’infanzia che mi ha mostrato era sempre accigliato. O
forse, più che accigliato, il suo sguardo era concentrato, pronto, serio, come
quello di oggi. Lo sguardo vigile di chi sta attento a non lasciarsi
sottomettere.
Shlomo non parla dei problemi di Israele, delle guerre, degli attentati, del
genocidio che ha coinvolto i suoi nonni. A volte penso che si senta in colpa
per essere andato via. Altre che mi abbia sposata per lasciarsi tutto alle spalle.
Shlomo non sopporta la mia ansia. La scambia per mancanza di fiducia in
me stessa e in lui. Pensa che sia una debolezza. Lo so come funziona: anche
io odiavo l’ansia di mia madre, ma capivo che era una malattia. Odiavo la sua
ansia, non lei.
Shlomo non capisce le malattie perché non si è mai ammalato. A sentir lui,
gli è capitata solo la disgrazia di innamorarsi di me, nella vita. Per questo a
volte temo che al primo accidente rischi di spezzarsi in due, come un albero
colpito dal fulmine. Ma Shlomo sa proteggersi. Io non ne avevo mai sentito il
bisogno, prima.
Ho vissuto godendo di tutte le emozioni fino in fondo: mi piaceva sentirmi
esaltata e persino sconvolta, dalla vita. Shlomo invece è lineare, distaccato.
Lo è sempre stato, ma un tempo sapevo che mi amava. Ora non più.
L’ultima volta che gliel’ho chiesto ha risposto “Non lo so e non lo voglio
sapere”. Me lo ha scritto in un messaggio: quando l’ho letto ho sentito un
dolore acuto al petto, come se mi avesse sferrato una coltellata.
La freddezza di Shlomo mi fa male in un punto preciso del corpo.
La prima volta che abbiamo fatto l’amore, nella sua stanza bianca di Neve
Tzedek, per me è stato bellissimo, non so se lo sia stato anche per lui. Shlomo
non parla di queste cose. Shlomo non parla di sentimenti, sesso, salute.
I primi anni che stavamo insieme, la sera ogni tanto mettevo un disco e
ballavamo abbracciati. Quando facevamo l’amore diceva che mi amava. Ma
abbiamo sempre litigato, anche allora: parole dure come pugni in testa.
I silenzi con cui mi puniva per settimane, dopo ogni lite, erano ancora più
crudeli: una morsa attorno al cuore, un’asfissia, una tortura. Ora litighiamo
meno, ma i suoi silenzi durano mesi. E io ogni giorno devo inventarmi
qualcosa per sfuggire al dolore della sua distanza: un viaggio, un lavoro, una
nuova amicizia. Dieci gocce di Xanax. Un gin tonic.
Eppure, non posso lasciarlo.
2
La lettera diceva di andare in un grande ospedale dove non ero mai stata.
Era una di quelle rare mattine di giugno in cui Milano vibra d’azzurro e la
luce è radiosa e tersa come in montagna. Per il gran caldo, invece dei soliti
pantaloni, avevo messo una gonna di lino, blu, e una camicetta leggera,
bianca.
«Sembri una scolara africana vestita così» ha detto mio suocero. L’ho
trovato in cucina che si preparava il caffè con la moka, in un pigiama di seta
blu. La sera prima aveva dormito da noi, in transito da Milano per uno dei
suoi viaggi. Si chiama Benjamin, lo chiamiamo Ben.
Shlomo era a Firenze per lavoro, e avevamo cenato coi ragazzi. Ben li
aveva ipnotizzati coi suoi racconti africani mentre io cucinavo le orecchiette
al pomodoro e stappavo una bottiglia di brut. Volevo festeggiare la sua visita
e dimenticare la lite con Shlomo di quel mattino. Non so per cosa avessimo
litigato, ma prima di partire mi aveva urlato che ero egocentrica e viziata e
poi non ci eravamo più sentiti.
Dopo la cena con Ben, sciolta dal vino, gli avevo scritto un messaggio in
cui dicevo di aver capito che non mi amava più, ma non glielo avevo spedito.
Quando il mattino dopo la radiologa ha ordinato con aria preoccupata un
altro esame, l’ho chiamato. Ha detto che sarebbe tornato subito, e così ha
fatto.
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