Ragazze nella felicità coniugale – Edna O’Brien

SINTESI DEL LIBRO:
Non molto tempo fa, Kate Brady e io stavamo bevendo insieme un
paio di malinconici gin fizz, su a Londra, lagnandoci del fatto che
niente sarebbe mai cambiato, che saremmo morte così
com’eravamo: con quel tanto che basta per mangiare, maritate con
chissà chi, insoddisfatte.
Siamo amiche da sempre. Da bambine, in Irlanda, dormivamo
insieme e io la spingevo apposta giù dal letto, sperando che si
spaccasse la testa o qualcosa del genere. Mi era simpatica e tutto –
anche se ero gelosa da morire, ovviamente – ma lei era troppo
posata, troppo buona, quel genere di bontà insulsa… capito no?
Tipo chiederti sempre come stai, come stanno i genitori, eccetera
eccetera. Alla scuola pubblica scriveva i temi al posto mio e al
Convento della Pietà stavamo sempre insieme, perché le altre
ottanta ragazze erano imbranate persino più di lei, e con questo ho
detto tutto. Dopo aver mollato il convento, finimmo in una topaia di
linoleum a Dublino e poi in un’altra topaia, qui a Londra, dove,
nell’arco di diciotto mesi, rimediammo tre inviti a cena a testa, il che
significava sei pasti in due, perché avevamo fatto un patto: chi di noi
andava a mangiare fuori doveva portare un po’ di cibo alla
Cenerentola di turno. Non avete idea di quante borsette ho rovinato
con questa storia…
Dopo nemmeno un anno incontrò di nuovo quello spostato di
Eugene Gaillard, che aveva conosciuto in Irlanda. Ricominciò la
solita tiritera, si innamorarono, o almeno credevano di esserlo, e in
quattro e quattr’otto mandarono tutto a farsi benedire, ovvero si
sposarono nella sacrestia di una chiesa cattolica. Ci furono costretti.
Non potevano farlo davanti a tutti, perché lui era divorziato e lei
incinta, con una pancia grossa così. Io ero la damigella d’onore. Un
vestitino di chiffon rosa e un cappellino con la veletta, tutto pagato
da loro. Sembravo io la sposa. Kate invece si era messa addosso un
enorme prémaman a righe tutto sformato e la sua bella faccia da
bambina. È una furbetta, lei, un tipino che riuscirebbe a sembrare
innocente persino se tenesse la madre rinchiusa nell’armadio. Il
prete non le guardò la pancia nemmeno una volta.
Quando uscimmo dalla sagrestia, Eugene si mise al volante e
partì a tutta birra e questa cosa mi stupì, perché lui è uno di quegli
ometti puntigliosi che ti fa mille raccomandazioni prima di farti salire
sulla sua macchina: «Non saltare sul predellino. Non spostare il
sedile troppo indietro. Non spostare gli altri sedili troppo avanti…».
Tutto per sentirsi importante. Partì come un razzo e lungo la strada
guidò a velocità folle, manco fosse un pilota di Formula 1. E se la
rideva pure, una cosa che non fa spesso.
«Che succede?» gli chiedo io.
«Il nostro amatissimo parroco avrà una bella sorpresa» rispose, e
allora Kate gli domandò «In che senso?», proprio come fanno le
mogli.
A quanto pare la busta che aveva consegnato al prete con dentro
le venti sterline per il matrimonio conteneva in realtà una solitaria
banconota irlandese, di un colorino arancione, un pezzo da dieci
scellini avvolto dentro vari fogli di carta, in modo da far sembrare la
busta più gonfia. Be’, Kate si arrabbiò da matti e diventò tutta viola in
faccia. Lui le disse che non era altro che una contadinotta convertita
alla dattilografia, e lei gli rispose che era talmente spilorcio che non
le avrebbe permesso nemmeno di comprare dei vestitini per il
neonato. Una frecciatina inutile, perché lui era già stato sposato e
aveva di certo messo da parte la carrozzina e pure i pannolini. Lui
allora le disse che era una maleducata e che se intendeva essere
volgare avrebbe fatto meglio a scendere dalla macchina. Disse
anche che avrebbe donato quelle venti sterline a un’istituzione meno
perniciosa della chiesa cattolica, e a quel punto Kate sbottò: «Bene,
allora fallo! Ferma una poveretta per strada e dalle quei soldi». Ma
lui non si mosse, rimase immobile davanti al volante come un palo
della luce e guidò dritto fino a un mediocre ristorante di Soho, dove
pranzammo senza particolare allegria, bevendo un vinello leggero e
frizzante che piacque così tanto a Eugene che strappò l’etichetta
umidiccia dalla bottiglia e se la mise nel portafoglio, per non
dimenticarsi di quel vino. Magari per il prossimo matrimonio… Kate
gli tenne il muso per tutto il tempo, e nemmeno io avevo tanta voglia
di ridere.
Andarono a vivere in campagna, dopo la nascita del bambino, e
lei mi scrisse un biglietto che ho conservato. Non so perché l’ho
tenuto, comunque diceva:
Cara Baba,
abitiamo in una valle da cui si vedono una collina ricoperta di felci
basse e dorate e gli uccelli che fanno il nido sui rami, tra i
germogli appena sbocciati. La casa è di pietra grigia, con lastre di
ardesia sul tetto, travi di legno all’interno e pareti gibbose
intonacate di bianco, vasi di fiori dappertutto; le assi del
pavimento scricchiolano a ogni passo e lui mi ama e avere un
figlio e vivere nella valle ed essere amata è meraviglioso, più bello
di qualunque altra cosa io e te abbiamo mai conosciuto nei nostri
giorni più spensierati.
Sempre tua,
Kate
Sempre tua, Kate… Io me la passavo da schifo in quel periodo.
Sempre un accidenti, Kate! Quella sera stessa mi misi il mio vestito
più bello e me ne andai in un pub irlandese. Il caso volle che proprio
là incontrassi il mio costruttore.
Si chiamava Frank, spendeva soldi come se niente fosse e
raccontava barzellette. Ve ne dico una delle sue, così vi fate un’idea
di com’ero messa: “due pescatori abbracciano un donnone tondo e
prosperoso e uno dice all’altro: ‘Bella pesca!’”. Basta alzare il gomito
e si ride di qualsiasi cosa, sempre che non ci si metta a litigare o a
fare a botte.
Comunque, Frank mi accompagnò a casa, mi offrì dei soldi – ha
la mania di offrire soldi a chi sta per dirgli di no – e poi mi chiese se
aveva l’aria di una persona istruita. Istruita! Era un tipo grosso,
rozzo, coi capelli unti e due sopracciglia così folte che formavano
un’unica striscia pelosa. Allora gli dissi: «Mai fidarsi di quelli col
monociglio, perché nel loro cuore abita un coniglio». Quant’è vero
Iddio, all’appuntamento seguente il monociglio era sparito, rasato
proprio sopra il naso, schiacciato come quello dei pugili. Era
talmente ottuso da non capire che quella era la cosa più interessante
di lui. Ottuso. Ma anche gentile. Le persone vulnerabili sono gentili,
di solito, almeno io la penso così.
Un’altra cena. Due cene in una sola settimana e un mazzo di fiori
recapitato a casa. Appena vidi i fiori pensai subito che avrei potuto
rivenderli a metà prezzo. Così li offrii alle ragazze che abitavano al
piano di sopra e anche a quelle del piano di sotto, ma tutte mi
dissero di no, tranne un’imbecille che accettò di comprarli. Siccome
non trovava più il borsellino e io mi sentivo particolarmente spilorcia
le dissi: «Guarda, facciamo così: te ne do la metà». Tenni per me
l’altra metà del mazzo, ma quando Frank venne a prendermi quella
sera incominciò a contare quanti fiori c’erano dentro il barattolo di
vernice, perché un vaso non ce l’avevo, e lo sapete cosa ha fatto? È
andato a telefonare al fiorista per dirgli che l’aveva imbrogliato. Se
ne stava al telefono sul pianerottolo, a gridare dentro la cornetta che
aveva ordinato tre dozzine di rose e che erano dei ladri e che non
avrebbe comprato mai più fiori da loro, e intanto io, nella mia stanza,
mi tappavo la bocca con le mani, perché non mi sentisse ridere.
«Magari non sei istruito» gli dissi «ma il commercio ce l’hai nel
sangue. Farai strada». Finì che il fiorista promise di mandare altre
rose, e così fu. Frank allora mi accompagnò in macchina da
Woolworth a comprare un vaso di plastica da due scellini, perché il
barattolo si sarebbe rovesciato se ci avessi infilato dentro un altro
fiore.
Ci vollero almeno altri sei inviti a cena prima che mi chiedesse di
andare a letto con lui, e la cosa mi colpì. Non sapevo se esserne
contenta oppure offesa. Era ubriaco fradicio la sera che me lo chiese
e la soffitta in cui vivevo era una ghiacciaia e non assomigliava per
niente a un nido d’amore. Le rose erano appassite ma ancora non le
avevo buttate, e avevo un letto piccolissimo e corto, così corto che
gli spuntavano fuori i piedi. Mi sdraiai accanto a lui, tutta vestita,
senza nemmeno infilarmi sotto le lenzuola. Frank incominciò ad
armeggiare con la mia cerniera e naturalmente la ruppe, e io sperai
che mi lasciasse almeno i soldi per riparare il danno, ma anche se
l’avesse fatto mi ci sarebbe voluto un corso di sartoria per imparare
a cucire una cerniera, che è una faccenda piuttosto complicata. Lo
sapevo che il letto si sarebbe rotto. Purtroppo si scopre che i letti
sono difettosi soltanto durante un certo tipo di utilizzo. Finalmente
riuscì ad abbassarmi la cerniera, a raggiungere la sottoveste – io
intanto stavo congelando – e a toccarmi con un dito o due, proprio
sul girovita che iniziava a ingrossarsi per colpa di tutte quelle cene
abbondanti, con salsine e roba simile. Mi resi conto che dovevo fare
qualcosa anch’io e incominciai a tastarlo qua e là, e quando gli
sfiorai la pelle nuda fui sorpresa di scoprire che era morbida e non
ruvida come la sua faccia. La mano di Frank incominciò a scendere
sempre più giù, ingorda all’inizio, ma all’improvviso si fermò: si era
addormentato. Andò avanti così per un bel pezzo, prima palpeggiava
e poi si appisolava, finché alla fine mi disse «Adesso cosa
facciamo?», e allora capii il motivo per cui non ci aveva provato
prima. Un vero irlandese: buono per guerre, assedi e massacri. Non
per l’amore. Ma me l’aspettavo. In fondo questa cosa lo rendeva
molto, ma molto più carino di tutti quei pescecani con cui ero uscita,
che non ti pagavano nemmeno il biglietto del cinema, ti prendevano
sul sedile posteriore della macchina oppure ti si intrufolavano in casa
e ti mangiavano pure i fagioli lessi, e magari pretendevano di
sperimentare un modo nuovo di fare sesso e non gliene fregava
niente se restavi incinta, perché a loro piaceva farlo “al naturale”,
senza aggeggi di mezzo. Gli preparai una tazza di caffè solubile e
quando si addormentò di nuovo lo coprii con la trapunta e spensi la
luce. Mi sedetti a pensare a quei diciotto mesi a Londra, a tutti gli
uomini che avevo conosciuto e alla faticaccia di rammendarsi i
collant sul tallone e di mantenere la pelle del viso ben idratata per
quell’Uomo Giusto che doveva arrivare, prima o poi.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo