Per gioco o per amore – R.L. Mathewson

SINTESI DEL LIBRO:
Stupida puttanella, hai rovinato la mia vita!».
«Signora Sands, aspetti», gridò Zoe, tenendo le mani davanti al viso, mentre
cercava disperatamente di indietreggiare verso la sua angusta postazione di
lavoro, finendo con l’urtare contro il muro di plastica biancastra da quattro
soldi che le impediva di allontanarsi. In mano un bicchiere di caffè freddo
extra large, che Zoe aveva comprato dieci minuti prima, e davanti una donna
incazzata nera che si stava dirigendo verso di lei. «La prego non…».
Le sue parole si smorzarono con un sospiro sbigottito, mentre
quell’abbondante mezzo litro ghiacciato della sua indispensabile dose di
caffeina la colpiva su viso, collo e petto, infradiciandola all’istante.
«La pagherai per quello che hai fatto!», urlò la signora Sands, tirando
indietro la mano per dare uno schiaffo a Zoe. Grazie al cielo qualcuno, forse
il signor Sands, aveva già chiamato la sicurezza e i due ragazzotti corpulenti,
che si aggiravano ogni mattina nell’atrio al piano di sotto, avevano già
afferrato la signora Sands e strattonata indietro, prima che riuscisse a dar
seguito allo sguardo omicida che stava rivolgendo a Zoe.
«Puttana!», la signora Sands urlò, scalciò e strillò, mentre veniva
accompagnata fuori dal decimo piano.
Con mano tremante, Zoe allungò il braccio e prese la traballante sedia da
ufficio, poi si sedette con cautela, facendo attenzione a tenere la maggior
parte del suo peso sulla ruota anteriore nel lato sinistro. Poteva ancora
considerarsi fortunata quando la sedia non cedeva, facendola finire col culo
sul pavimento.
«Ti avevo detto di tenere la bocca chiusa», disse John, lo stronzo
dell’ufficio, con tono annoiato, mentre passava davanti alla postazione di
lavoro di Zoe.
Sì, l’aveva detto davvero e si sarebbe presa a calci per non averlo ascoltato
quando ne aveva avuta l’occasione. Con un gemito nascose il viso tra le mani
e si chiese se qualcuno avrebbe mai notato la sua assenza se fosse andata via
dall’ufficio un po’ prima. Certo che sì, pensò miseramente. Quegli spilorci
dell’amministrazione controllavano i propri dipendenti come falchi, non
facendosi sfuggire una virgola, sempre pronti a piombargli addosso e
aggredirli al minimo errore.
Aveva perso il conto di quante volte le avessero fatto un richiamo per
“eccessivo spreco del materiale da ufficio”, per non riutilizzare i fermagli,
lasciare il computer acceso mentre era in bagno, gettare via la carta che
poteva essere riutilizzata indipendentemente da cosa ci fosse stampato sopra e
infine il suo preferito in assoluto: usare più di un punto su un plico. Se avesse
provato ad andarsene, anche un solo minuto prima, se ne sarebbero accorti e
la settimana successiva, per recuperare il tempo che ritenevano lei dovesse
restituire, le avrebbero raddoppiato il carico di lavoro.
Dopo tre lunghi anni era troppo stanca per discutere o preoccuparsene. Era
arrivata al punto di rassegnarsi a entrare alle otto e trenta in punto e lavorare
otto ore e mezzo e saltare le sue pause pranzo non retribuite come stabilito e
infine tornare a casa in quel nuovo inferno che stava iniziando a odiare.
Due mesi prima, quando il padrone di casa l’aveva sfrattata senza tante
cerimonie per dare il suo appartamento alla figlia diciottenne e al suo
fidanzato di trentadue anni, si era disperata per trovare una casa decente da
potersi permettere con il suo misero stipendio.
Quando trovò quella splendida casa su due livelli, in un quartiere dignitoso a
duecento dollari in meno del suo vecchio appartamento, ne fu entusiasta e se
la accaparrò immediatamente, sperando fosse un segno che magari le cose
sarebbero iniziate ad andare meglio. Certo, ormai avrebbe dovuto saperlo che
nella vita le cose non vanno mai nel verso giusto.
Avrebbe dovuto capirlo con la scoperta che l’altro inquilino della casa
bifamiliare era il nipote della proprietaria. Nel corso degli anni aveva dovuto
spesso affrontare una situazione simile a quella e avrebbe dovuto imparare
bene la lezione. Nella sua esperienza, i parenti del proprietario di una casa
erano sempre i più maleducati, i più rumorosi, e avevano tutti un’enorme
pretenziosità, il che rendeva le vite degli altri inquilini un vero e proprio
inferno. Aveva imparato ben presto a non lamentarsi con il padrone o la
padrona di casa quando il figlio faceva dei festini che duravano tutta la notte,
le gare a chi strillava di più fino alle tre del mattino, o quando i nipoti
facevano esplodere palloncini pieni d’acqua nella sua cassetta postale. Non
ne valeva la pena.
Così, quando il suo nuovo vicino, Trevor Bradford, aveva parcheggiato il
suo pick-up occupando metà del suo posto macchina, non lasciandole altra
scelta che parcheggiare sulla strada, con il rischio di prendersi una
contravvenzione, aveva tenuto la bocca chiusa e si era rassegnata, sapendo
che qualsiasi lamentela sarebbe servita a poco. Ogni volta che lui faceva
qualcosa che le rompeva le palle, come rubarle il giornale, tenere a tutto
volume il televisore, o spargere fango nel piccolo ingresso che avevano in
comune e sul suo simpatico tappetino con i cuccioli, si mordeva le labbra e
teneva la bocca chiusa, ricordando a se stessa che quella casa, nonostante il
vicino stronzo, era il posto migliore dove avesse mai vissuto.
«Che cosa ci fa ancora qui?», chiese una voce dura e severa.
Zoe alzò lo sguardo, temendo di trovarsi ancora davanti la signora Sands
pronta per il secondo round. C’era, invece, il marito della donna, il signor
Sands, fermo davanti alla sua postazione di lavoro che la guardava con aria
indignata. Non si aspettava questo atteggiamento, considerando che era stata
lei ad accorgersi che negli ultimi sei anni erano stati sottratti cinque milioni di
dollari e a trovare le prove che collegavano la signora Sands al furto. D’altro
canto, riusciva a capire perché lui fosse così incazzato, visto che era stata
proprio sua moglie a fotterlo.
«Le ho chiesto perché è ancora qui, signorina O’Shea. Il suo rapporto di
lavoro si è concluso un’ora fa. Pensavo che se ne sarebbe andata
immediatamente», disse freddamente.
«C…cosa?», chiese Zoe, alzandosi in piedi rapidamente, troppo
rapidamente. La sua sedia si capovolse con un tonfo rumoroso e due rotelline,
staccandosi, rotolarono da qualche parte sotto la scrivania. «Perché, sono
stata licenziata?».
Non aveva alcun senso. Qualsiasi capo avrebbe gradito scoprire che
qualcuno l’aveva derubato, giusto? Non si aspettava che i suoi ne sarebbero
stati contenti, ma un po’ di gratitudine non avrebbe certo guastato, soprattutto
in quel momento.
Con un lungo sospiro, il signor Sands fece cenno di avvicinarsi a una delle
guardie di sicurezza che avevano trascinato via la signora Sands.
Automaticamente, Zoe fece un nervoso passo indietro.
«La prego di farla allontanare prima che distrugga qualche altra cosa di
proprietà della società», ordinò il signor Sands, andandosene.
Distruggere cose di proprietà della società? Con aria accigliata guardò la
sedia che negli ultimi tre anni non aveva fatto altro che darle problemi e che
ormai era tenuta insieme soltanto dal nastro adesivo. Prima di riuscire a dirgli
che la sedia le era stata consegnata già rotta, la robusta guardia della
sicurezza l’aveva già presa per un braccio e la stava trascinando verso
l’ascensore, tenendo con l’altra mano la sua borsa nera.
«Ehi!», disse cercando disperatamente di puntare i piedi sul tappeto da
quattro soldi, sottile come carta. «Perché sono stata licenziata?», chiese,
allungando la mano per potersi aggrappare alla parete di una delle postazioni
di lavoro, mentre la guardia la strattonava via. Cercò di afferrare un’altra
parete. “Maledetti pannelli di plastica a buon mercato”, pensò, mentre la
mano le scivolava via dalla parete che fungeva da divisorio. «Non capisco
perché mi state licenziando. Non sono io quella che vi ha derubato!», gridò,
mentre veniva trascinata in ascensore. Lei allungò le braccia e sbatté le mani
contro il bordo dell’entrata dell’ascensore, per bloccare la chiusura delle
porte e poter ottenere la sua risposta.
Il signor Sands scrollò le spalle. «Perché avrebbe dovuto accorgersene
prima», disse, lasciandola assolutamente sbalordita.
Mollò la presa e fece scivolare le mani, consentendo alle porte
dell’ascensore di chiudersi e al suo mondo di sgretolarsi.
Cosa diavolo avrebbe fatto ora?
«Io avrei tenuto la bocca chiusa», borbottò la guardia della sicurezza.
Zoe sospirò infelice. «Sono proprio un’idiota».
«Sì».
«Ti prego, ti prego, fa’ che non stia nel mio posto macchina», ripeteva Zoe
cantilenando a bassa voce mentre svoltava lentamente l’angolo, sperando di
riuscire a capire come cambiare o almeno aggiustare temporaneamente i
tergicristalli, strizzando gli occhi per riuscire a vedere qualcosa con quel forte
acquazzone.
Procedendo lentamente, poco dopo si fermò davanti casa sua… o almeno
pensava che fosse casa sua. Con un piccolo gemito, spinse il pulsante per
abbassare il finestrino del guidatore, cercando di non rabbrividire quando
questo emise il suo solito rumore stridente. Non appena fu completamente
abbassato, Zoe si sporse dal finestrino, cercando di distinguere il colore della
casa, azzurro pallido, non era quella, ma almeno ora sapeva che c’erano solo
altre due case per raggiungere la sua.
Proprio mentre stava facendo retromarcia, una macchina le passò dietro a
forte velocità, prendendo in pieno una grande pozza d’acqua e infradiciando
Zoe ancora di più. “Questa giornata non potrebbe essere peggiore”, pensò,
asciugandosi il fango dagli occhi e sussultando quando qualcuno dietro di lei
suonò il clacson. Con un sospiro rassegnato riprese a guidare, ma a quanto
pareva non abbastanza veloce per le persone che aveva dietro di sé, che
accompagnavano la sua guida a venti all’ora con continui squilli di clacson.
Dopo una giornata come quella non fu troppo sorpresa di trovare il pick-up
di Trevor parcheggiato al centro del corto vialetto che avevano in comune.
Con un lamento cercò di parcheggiare l’auto dall’altra parte della strada,
provando a ignorare le macchine che sfrecciandole davanti la rimproveravano
e aggiungevano uno speciale squillo di clacson nel caso lei non avesse capito
il messaggio la prima volta.
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