Non voglio l’amore – Connie Brockway

SINTESI DEL LIBRO:
Tuo padre è qui — sussurrò Gunna. Era in piedi sulla soglia,
sbirciando con la coda dell’occhio come se avesse Satana alle
spalle. Niente faceva paura a Gunna. Almeno, pensò con interesse
Kay MacFarlane, niente finora.
E Fia, che di solito sembrava fredda quanto uno dei teoremi
matematici del suo precettore, trasalì. — Mio padre?
— Sì.—Gunna si morse il labbro martoriato. — Potrei dirgli che sei
partita.
Le nere gonne di Fia frusciarono mentre si alzava in piedi. — No.
Mi stupisce solo che abbia aspettato tanto. Gli avvocati si sono
presentati quattro mesi fa. Kay e Cora, per favore, restate qui con
Gunna.
Lei scomparve nell’interno della casa. Gunna esitò, fissando i
bambini con uno sguardo severo. Cora chiuse frettolosamente la
bocca e tornò al proprio ricamo.
— Voi due farete meglio ad aspettare qui se stasera volete andare
a letto con il sedere illeso — ammonì Gunna, e si affrettò dietro a
Fia.
— La cucina — disse Cora, balzando in piedi.
— Non essere così ragazzina, Cora — la rampognò Kay. — Non
puoi avere intenzione di origliare. È troppo puerile. Inoltre è quasi
ora di cena. Ci saranno in giro tante di quelle pentole e tegami
sbatacchianti che non riusciremo a sentire nulla comunque.
Cora gli lanciò un’occhiata acida e scomparve. Kay attese qualche
minuto e poi si alzò. Non sarebbe stato giusto dare a Cora il cattivo
esempio, ma lui sarebbe stato una misera brutta copia di figliastro se
non si fosse dato pena di scoprire cosa avesse turbato Fia tanto da
farla trasalire. Si avviò per il corridoio verso la scala di servizio,
agguantando per strada una coppa dalla credenza in sala da pranzo.
Il ricordo improvviso del padre gli provocò una fitta di malinconia.
MacFarlane era morto da cinque mesi. Morto per un budino di
melassa di troppo tra i tanti, o così avevano detto, e c’era da
stupirsi? L’ultima volta che suo padre era stato a Bramble House
aveva l’aspetto di un toro da concorso, ma soprattutto per il grasso e
l’irascibilità.
Il pensiero rattristò Kay, perché lui lo rammentava come un uomo
robusto e solido quanto Bramble House era un grande feudo.
Scacciò via la tristezza. Qualcosa d’importante stava accadendo.
Benché in tutti gli anni vissuti lì Fia non avesse mai parlato di lord
Carr, suo padre aveva più che compensato quella inadempienza.
Nelle sue rare visite a casa era stato prodigo di racconti sul suo
intimo amico, Ronald Merrick, lord Carr. A Fia questo non piaceva
molto. Le si accapponava la pelle e le si spegnevano gli occhi a ogni
accenno a quel nome. Non che il padre l’avesse notato, ma quanto a
questo, lui non era proprio un tipo che “notasse”.
Di sopra, Kay si mise in ginocchio e capovolse la coppa sulle assi
del pavimento. Gli ci volle un po’, ma alla fine trovò la posizione
migliore per ascoltare. La voce di Fia, bassa e gutturale come un
gorgoglio di acque primaverili, vibrò attraverso il vetro.
— ... sorpresa che tu non l’abbia eliminato subito.
— Per fare esattamente il tuo gioco, mia cara? Spero bene di non
essere così sprovveduto. Diamine, se l’avessi fatto, tu avresti
ereditato un ricco patrimonio. Saresti stata completamente
indipendente. Oh sì, Fia. Conoscevo il tuo piano dal momento che
ho saputo che eri “fuggita".
— Stai dimenticando i suoi figli. — La voce di Fia era un tantino
ansiosa.—I suoi eredi.
L’uomo rise. — Sai bene quanto me che se MacFarlane fosse
morto quando vi eravate appena sposati tu avresti avuto la gestione
del suo patrimonio finché il ragazzo non fosse divenuto
maggiorenne. Tuttavia, da quel che ho sentito, tu non sapevi di loro,
non è così?
— Quanto deve averti roso questo! Come avrei voluto essere una
mosca sul muro a quel particolare incontro.
Ci fu una pausa e Kay udì un rumore di passi, misurati e pesanti.
Lord Carr. Quando parlò di nuovo era proprio sotto di lui ma la sua
voce era così bassa che Kay afferrò soltanto qualche frase.
— ... abbastanza fiducia nella tua immaginazione...
— ... di certo ti sei sposata con un piano già...
— ... sbarazzarti del piccolo...
Poi la voce di Fia, fredda e tagliente come il ghiaccio. — Perché
sei venuto? Avevi già mandato i tuoi avvocati.
— So che gli avvocati te l’hanno detto — gongolò Carr — ma non
potevo negare a me stesso il piacere di ripetertelo in faccia.
La risposta di Fia per la maggior parte andò perduta, ma terminò
con la parola — ... quanto?
— Diamine, tutto, mia cara. Tutto.
Ci fu una lunga pausa, poi Fia mormorò qualcosa d'impercettibile.
— Dovresti essere felice che io l’abbia fatto — rispose Carr. —
MacFarlane di certo era lietissimo di avere me a garantire per lui. E
a sostenerlo. E ad accettare le sue cambiali. E le sue garanzie
collaterali. Io credo... — Una pausa. — Io credo che lo considerasse
una prova della nostra amicizia.
— Ti sei mostrato suo amico per un’unica ragione. — La voce di
Fia era chiara stavolta. — Per vendicarti su di me.
— Hai torto. Be', perlopiù torto. Oh, Fia, noi siamo così simili, tu e
io. Io non spenderei la mia energia in una semplice vendetta per
nessun altro che te, cara figlia. Non è forse questa una prova della
mia premura paterna?
Fia non replicò. Il silenzio montò, gonfiandosi sui carboni ardenti
delle emozioni che Kay percepiva nella stanza di sotto. Lui non
capiva del tutto quello che era stato detto, ma istintivamente lo trovò
spregevole. Stava per alzarsi in piedi quando udì di nuovo Fia.
— Cosa vuoi esattamente?
— Non molto. Semplicemente che tu adempia a quel ruolo cui ti
ho destinata alla tua nascita, quel ruolo che avresti dovuto
adempiere cinque anni fa, ma che hai eluso scappando via con il tuo
sposo scozzese. Il ruolo che sei stata allevata per interpretare.
Qualcosa cadde sul pavimento di sotto.
— Cos’è questo? Emozioni, Fia? Oh, mia cara, ti sei rammollita
qui nella tua piccola tenuta di campagna. Piuttosto pittoresca, vero?
Tutta verde e pianeggiante. Non di mio gusto, ma vedo che tu ne sei
invaghita. E puoi tenertela, anche. Se soddisferai i miei desideri.
Lei disse qualcosa. Le sue parole erano attutite.
— Bene — replicò Carr — per prima cosa, tu devi venire a Londra
con me.
2
L’aria giunse al termine. Il corpulento italiano chinò il capo in
ringraziamento dell'applauso e l'impresario lo raggiunse per
annunciare un intervallo. Immediatamente lo strepito delle
chiacchiere riempì il teatro mentre gentiluomini e dame si
accalcavano verso il foyer.
Il capitano Thomas Donne restò dov’era. Accanto a lui i suoi
compagni, Edward “Robbie” Robinson e Francis Johnston oziavano
indolenti mentre il giovane Pip Leighton si alzò in piedi guardandosi
intorno ansiosamente.
Thomas aveva conosciuto Pip e sua sorella, Sarah, a una festa
dove era stato portato dal suo amico e socio, l’armatore James
Barton. Di norma Thomas evitava simili eventi mondani, ma dato che
per riparare la sua nave ci sarebbero volute settimane, aveva
parecchio tempo libero. Nei giorni precedenti aveva goduto della
compagnia di Miss Leighton, finché era diventato evidente che lei
cercava qualcosa di più di un’amicizia occasionale.
Lui non avrebbe mai potuto offrire il proprio nome a una dama
inglese. Non perché non volesse farlo; in effetti desiderava
moltissimo avere il genere di rapporto che James aveva goduto con
la sua dolce Amelia prima che l’influenza se la portasse via lo scorso
anno. No, lui non poteva offrire il proprio nome perché non aveva più
un nome da offrire.
Era stato condannato come traditore giacobita, deportato come
criminale, ed era tornato sotto falso nome. Nessuno sapeva che la
sua vera identità era quella di Thomas Fitzgerald McClairen.
Neppure James Barton.
Ferire Sarah aveva addolorato Thomas, ma almeno conservava
ancora la stima di suo fratello Pip. Ne era lieto. Quel giovanotto gli
piaceva.
— Il suo nome significa “scura promessa”— canticchiò Pip.
Thomas sorrise al tono appassionato del ragazzo. Il sorriso
ammorbidì i lineamenti del volto cupo e scaldò il grigio adamantino
dei suoi occhi. Se il fratello nato morto fosse vissuto, sarebbe stato
molto simile a Pip, non solo per età ma anche nei capelli color
mogano così simili a quelli di Thomas.
Se le cose fossero state diverse. Se la guerra e il conflitto e
Ronald Merrick, conte di Carr, non ci fossero stati.
Il pensiero di Carr raggelò il sorriso di Thomas.
— Che io sia dannato. Ecco lì il "Diamante Nero” — sussurrò
Francis Johnston. — Ha una bellezza così austera che spero di non
vederla mai più.
— Lei è qui? Dove? — La testa di Pip si voltò di scatto.
— Lassù, ragazzo — fece notare Robbie. — Che osserva dal
palco di Compton. O meglio, che viene osservata.
— Oh! — ridacchiò Johnston. — Immaginate la costernazione tra
le altre belle signore. Non hanno una sola possibilità di reggere al
confronto.
— Il “Diamante Nero?” — domandò Thomas, senza voltarsi a
guardare. Il belmondo era pieno di cortigiane d’alta classe con
curiosi soprannomi. Sfortunatamente di solito questa era la cosa più
interessante a loro riguardo.
— È il nome che le ha appioppato uno dei ragazzi del club. Si dice
che sia una bellezza tanto rara, dura e dal cuore nero quanto quella
gemma leggendaria — disse Johnston.
— È decisamente affascinante. Ma perché è così affascinante? —
rifletté Robinson. — Non utilizza nessuno dei soliti trucchi. Niente
ventagli, niente occhiate languide o smorfie provocanti... che sia
dannato se riesco a capire come fa.
— E non ci riuscirai mai, Robinson — disse con voce strascicata
un tipo arguto dietro di loro. — Capire come fa, ecco il punto. Non
potresti neppure se i tuoi fratelli maggiori dovessero morire tutti
all’improvviso. Nessun visconte per quella dama. Bisogna portare
almeno una corona per scoprire come lo fa.
Il doppio senso provocò qualche rozza risatina e freddo sdegno.
Tranne che per Pip. Le guance ancora lisce del ragazzo ardevano di
un rosso acceso.
— Lord Tunbridge! — esclamò con sguardo truce. — Io esigo
delle scuse per conto della signora.
“Buon Dio” Thomas chiuse gli occhi per l’esasperazione
“risparmiami la gioventù indignata.” Di tutti gli uomini con cui litigare
su qualche gonnella, Pip aveva scelto proprio un rinomato
spadaccino. A onor del vero, l’abilità di Tunbridge poteva aver
risentito dell’essersi ritrovato la mano - e la carta da gioco che
cercava di occultare nel palmo - inchiodata contro il tavolo di una
taverna qualche anno prima. Ma Tunbridge tirava di scherma con
ambedue le mani.
Tunbridge rise. — Ditemi, signori, mi sto sbagliando o questo
pivello mi ha appena sfidato?
Con calma Thomas si voltò. Gli anni non erano stati clementi con
Tunbridge. Un tempo magro, adesso era quasi scheletrico, gli zigomi
che gli sporgevano penosamente, gli occhi infossati in un viso color
dello zolfo.
— Ah! — fece Thomas sorridendo indolentemente. — Chi altro se
non Tunbridge, per Giove. Tunbridge, fai le tue scuse al ragazzo
così potremo goderci qualche altra canzone. È troppo presto per
assistere a un duello. — Né la pronuncia strascicata né la sua
noncuranza erano sciolte come un tempo, ma Tunbridge non
sembrò accorgersene. — Lo prenderò come un favore personale —
aggiunse Thomas.
Un guizzo di allarmato riconoscimento attraversò gli occhi incavati
di Tunbridge. Quando Thomas era tornato la prima volta in
Inghilterra sette anni prima, si era creato il personaggio di un
dissoluto scozzese espatriato. Tunbridge era una figura centrale nel
mondo del gioco d’azzardo, delle case di piacere e delle taverne che
lui aveva frequentato.
L’obiettivo di Thomas allora era stato quello di farsi amico Ash, il
figlio di Carr, per poi distruggerlo, prima di fare lo stesso con il padre.
Quando era stato vicino a raggiungere il suo scopo, si era reso conto
che il ruolo di Giuda aveva danneggiato più lui che Ash. Subito dopo
aveva lasciato l’Inghilterra.
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