Milano Storia comica di una città tragica – I club, la malavita, il cabaret e la televisione – Giulio D’Antona

SINTESI DEL LIBRO:
Non c’è un senso che stimoli la memoria come l’olfatto. È
qualcosa che ho sempre saputo e sulla quale ho, in un modo o
nell’altro, sempre fatto affidamento. Mi piace camminare nelle città
che visito, nelle quali abito o mi è capitato di abitare, villeggiare,
passare per caso, annusando l’aria alla ricerca di un ricordo, anche
flebile, anche fugace, anche impossibile da afferrare.
La fine della primavera a Milano annuncia l’estate in arrivo e sa
già di gomma, asfalto rovente, gelsomini. La gomma è quella degli
pneumatici delle auto parcheggiate accanto e sui marciapiedi che si
scioglie al sole. È un odore dal quale non si può sfuggire soprattutto
nel primo pomeriggio, quando il caldo piega la schiena e fa
abbassare lo sguardo: tenendo il naso puntato a terra si ha la
sensazione che provenga dalle cicche americane spiaccicate sul
selciato: macchie di un gigantesco leopardo di catrame.
L’asfalto è quello delle strade, che fuma e mangia i tacchi delle
signore squagliandosi come lava bollente dalle pendici di un
vulcano. Pretende le vite di qualsiasi cosa tocchi dalle due alle
quattro del pomeriggio, dai cavalletti dei motorini ai tappi delle biro,
che prima si fondono con la colata nera e ciottolosa e poi evaporano
nella calura lasciando il calco di fossili tutti uguali, irriconoscibili pezzi
di città.
I gelsomini sono quelli aggrappati alle recinzioni e ai cancelli:
dopo le sei, quando il sole concede un po’ di tregua andandosi a
nascondere dietro gli edifici più alti, investono i passanti con un
afrore dolcissimo, tiepido, zuccherino, esaltante anticipo
dell’aperitivo.
Poi c’è un altro odore, più misterioso, difficile da definire, che fa
da sfondo a quasi tutte le mattine d’estate a Milano. È l’odore che
più riattiva i ricordi della mia infanzia e che solo di recente sono
riuscito a isolare. Lo sentivo tornando a Milano dal Lago Maggiore,
dove vivevo, a metà maggio – quando, cioè, estate non era ancora
ma l’aria già ne aveva tutti i sentori –, prima di partire per un breve
anticipo delle vacanze al mare. Impregnava muri e strade, entrava
dalle finestre di casa dei miei nonni, al quartiere Isola, mentre facevo
fatica ad addormentarmi per l’eccitazione della partenza. Era un
odore pesante, viscoso, denso. Non spiacevole, ma uniforme e
persistente. Forse, se lo avessi scoperto in altre circostanze –
quando mi sono preso una settimana di studio e di terrore prima
degli esami di terza media, ad esempio, oppure la mattina in cui, da
adolescente, sono corso a Milano perché mio nonno stava morendo
– allora lo avrei trovato ributtante. Ma tutto questo sarebbe successo
nei mesi di maggio a venire. Da bambino era l’odore delle vacanze,
della libertà e del mare dietro l’angolo. Gli esami erano lontani e il
nonno era vivo, andavamo assieme a prendere la pizza e
quell’odore era lì ad accompagnarci. Anche quando lo avessi
avvertito nelle situazioni peggiori, sarebbe sempre stato l’odore di
maggio, dell’estate che sta per cominciare e sembra sconfinata,
dell’inverno che non tornerà mai più.
Era l’odore del vetro lasciato al sole. Cresceva nelle vecchie
campane davanti ai portoni e nei cortili dei ristoranti. Adesso che le
campane le hanno rimosse tutte e che il vetro è quasi sempre da
riciclare e quasi mai a rendere, lo si sente molto meno.
Il 12 maggio 1996 io aspettavo di partire. Di comicità non sapevo
molto di più di quanto mi arrivava dalla televisione. L’odore del vetro
che asciuga al sole era dappertutto.
I milanesi hanno uno strano modo di essere simpatici: ridono solo
sotto i baffi, mai apertamente, e sembra sempre che sappiano
qualcosa più degli altri, qualcosa che ogni tanto gli torna in mente e
gli fa affiorare un sorriso sulle labbra. Ma mai un sorriso di simpatia,
sempre un sorriso di scherno. Forse è per questo che la comicità a
Milano è diventata negli anni una comicità standard, basilare. La
comicità zero sulla quale costruire tutto quello che può
rappresentare nel resto d’Italia. Non sguaiata come la comicità
romana, né colorata come quella napoletana.
Quando si entra in un bar di Roma, c’è sempre qualcuno che fa
una battuta a voce alta, a beneficio di tutti i presenti. Quando si entra
in un bar di Milano, c’è sempre qualcuno che fa una battuta a mezza
voce, a beneficio di sé stesso. C’è chi si dice pronto a scommettere
che più della metà delle battute che non si riescono a cogliere nei
bar milanesi siano più efficaci di tutte quelle sentite distintamente nei
bar romani. Ha detto Teo Teocoli: “Sai perché a Milano sembra che
tutti abbiano sempre il muso?” “No, perché?” “Perché hanno tutti
paura che se si lasciano scappare una battuta, qualcuno gliela ruba
e se la rivende.”1 Oltretutto, leggenda vuole che a Milano le battute
non vengano mai ripetute e che a Roma vengano usate finché non
hanno più niente da dare. Non più una singola risata da strappare.
Ecco perché a Milano c’è la televisione e a Roma il cinema
(affermazione non del tutto esatta, ma buona generalizzazione
introduttiva, ci torneremo).
La realtà è che, come esistono battute buone a Roma e romani
non così sprovveduti, allo stesso modo esistono milanesi chiassosi e
con un senso dell’umorismo molto meno raffinato di quanto si possa
immaginare osservando il via vai di piazza San Babila in un qualsiasi
lunedì dell’anno.
Ho sempre pensato che l’umorismo fosse qualcosa che non si
può insegnare, che si impara vivendo e osservando, respirando, e
che quindi dipenda molto dal momento e dal luogo in cui si cerca.
Milano ha un suo modo di metterci l’umorismo sotto il naso,
differente dagli altri, ancora più istintivo proprio perché meno
evidente. Mio nonno, lo stesso con cui andavo al mare, mi ha
insegnato l’umorismo milanese attraverso quello che faceva ridere
lui. Era uno che rideva spesso, anche ad alta voce, al contrario di
molti dei suoi concittadini. In famiglia ricordiamo tutti la sua
barzelletta preferita, solo che nessuno di noi può dire di averla mai
sentita per intero. Ci tramandiamo la battuta finale e a turno
cerchiamo di ricordare cosa ci fosse prima. Finiva con Va’ a dà via il
cu, ti e la to bicicleta!, che in milanese vuol dire “Va’ al diavolo, tu e
la tua bicicletta”, ma come si arrivasse a questa conclusione non è
chiaro a nessuno. Il nonno, quando la raccontava, lo faceva tra una
sghignazzata e l’altra, chiedendoci continuamente pazienza perché
non riusciva a mettere insieme una frase per intero senza scoppiare
a ridere. Eppure andava avanti, la raccontava tutta in quel suo modo
a singhiozzi di ilarità e arrivava in fondo, fino al tipo che doveva
andare al diavolo con la sua bicicletta senza che nessuno avesse
capito esattamente come né perché.
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