MELAMPUS – Ennio Flaiano

SINTESI DEL LIBRO:
È il 2 agosto 196... Eccomi da poche ore a New York, in questa
città molto intima e geometrica, costruita in stile babilonese e abitata
da americani.
Ho appena lasciato a Roma il traffico dell’estate nelle vie verso il
mare, le piccole auto con le barche di gomma sul tetto o carrozzine
per bambini e altri fagotti coperti da veli che salutavano la mia
partenza. E la luce sfocata dello scirocco che lega così bene con
l’odore acre della nafta, nel piazzale dell’aeroporto, verso i lunghi
itinerari. Ho trovato qui il caldo pieno del pomeriggio, ma un cielo
terso e ampio; e il silenzio dell’ingresso a Manhattan, nelle vie quasi
sgombre, tra i vecchi brown-stones con la scala a ponte levatoio, i
recenti palazzoni, i vasti empori, i bar, i negozi in vacanza col cartello
Closed nella vetrina spettrale.
Un dirigibile pubblicitario sorvolava la città. Non vedevo un
dirigibile da quarant’anni.
Forse per questo ho comprato un quaderno, vi ho incollato il mio
biglietto da visita: Dr. Giorgio Fabro, e ho aggiunto: Diario. Ho
intenzione di tenere un diario. Non intimo, filosofico e proditorio sul
mio soggiorno: un diario di lavoro. Segnarci tutto ciò che può
interessare il film. Esempio: questo dirigibile.
E per il resto, vedremo. La noia conduce alla letteratura e devo
mettere in conto di annoiarmi. Uno scrittore di cinema è un tentativo
della natura per utilizzare la noia.
Durante il viaggio, ossessionato da una sola parola: tripulacion,
che in spagnolo è equipaggio. In portoghese: tripulação. I membri
dell’equipaggio: tripulantes, nelle due lingue. Dev’essere la stessa
parola che ha ossessionato Colombo. Todos os tripulantes sabem
utilizar estas mangas de salvação. È nelle istruzioni di emergenza, in
caso di caduta in mare.
Resto sempre affascinato dai particolari. Di tutto l’arrivo, il mio
nome ripetuto da una giovane che doveva consegnarmi un
messaggio di Florence Baker, con l’indirizzo dell’albergo. La giovane
aveva l’aria pura e netta di certi angioloni e la voce
ultraterrena degli altoparlanti... Ma le cattedrali dei tempi moderni
sono gli aeroporti.
Florence Baker: mi domando che tipo è. Fra i trenta e i trentotto,
ancora giovane quando ride. Conosce l’Italia, la sua esperienza
dev’essere stata estiva e lampante, mi guarda come se anch’io
l’avessi favorita, con una complicità che ci mette
subito nella confidenza delle persone che si accettano. È di una
bellezza pulita, ottenuta con cure disinvolte, di donna sola; che
lavora fra gli uomini e deve ogni giorno sorprendere per la sua
semplicità.
Prevedo che cambierà d’abito molto spesso. La vedo già nelle sue
cotonine ben stirate, senza gioielli, o con qualche spilla azteca o
indiana messa sull’omero ben alta, come una decorazione
misteriosamente sessuale. Oppure con delle camicette d’altri tempi:
o di colpo sciatta, in pantaloni
e maglia, lo sguardo appesantito da una sbornia.
Stappiamo una bottiglia per brindare al nostro futuro lavoro, questo
lavoro che a pensarci di soprassalto mi sgomenta. L’ho accettato
senza considerare che ogni giorno mi apparirà più improbabile; già
all’aeroporto, davanti al sorriso innocente del policeman che
riconsegnava il passaporto e mi augurava buon divertimento, sotto
quelle bandiere araldiche, e poi nella corsa verso il ponte di
Triborough, ho sentito scricchiolare l’ottimismo della storia.
Florence Baker sa bere con calma, si tiene a volte il bicchiere sulla
fronte per sentirsi fresca e infelice, e il suo sguardo si perde per un
attimo nel vuoto, in quel vuoto delle donne sole. Le ho detto che
domani vorrò riposarmi. Mi ha lasciato sullo scrittoio il suo numero di
telefono; se cambierò idea potrò chiamarla, ella è praticamente a
mia disposizione, pagata per questo. Ma siccome dopodomani è
sabato, se ne riparla lunedì; e a questo punto mi sono accorto che
starò tre giorni solo. Uscendo, Florence Baker mi aveva già giudicato
per quello che sono: un pigro di mutevole carattere, e se ne andava
spegnendo le luminarie dell’accoglienza. Ha capito che non sono
abituato a lavorare con una segretaria. L’ho raggiunta verso
l’ascensore. «Pensandoci bene,» le ho detto «potremmo vederci
domani nel pomeriggio, alle tre.»
Ho visto l’acqua scendere nella vasca e mi sono guardato allo
specchio: ho l’aria stanca che hanno “gli altri”. Dopo il bagno, come
fanno i gatti, ho verificato l’appartamento, aperto tutti i cassetti,gli
sgabuzzini che servono da armadi, provato le luci, le molle del
divano e del letto. Nessuna traccia di passate presenze, solo l’odore
subdolo dell’antitarme, tutto sembra in ordine per me, e
tuttoabbastanza inquietante. Ho già voglia di andarmene.
La giornata di ieri è trascorsa in un velo di ottusità. Ho dormito fino
a mezzogiorno in un sonno che non voleva esaurirsi, pieno di sogni
che ricominciavano daccapo e si confondevano verso la fine, come
se girando fossero usciti dai loro cardini.
Il mio orologio segnava ancora l’ora di Roma, sei ore di più.
Laggiù, la sera cominciava a scendere e le piccole automobili
tornavano dal mare alla città, verso i piaceri minuti delle trattorie
all’aperto, tutti pronti per il levarsi del sipario notturno nei quartieri
popolari, tra il rosso dei cocomeri e i turisti. Sui frontoni delle chiese
barocche, dominando i tavoli, gli angeli hanno un piede nel vuoto,
come se dovessero scendere un momento. Altri suonano una
tromba, altri sorreggono una fiaccola.
Non avevo nemmeno fame e guardando il cielo l’ho visto opaco e
incombente: lo scirocco, o chi per lui, mi aveva raggiunto. Al
drugstore dell’angolo ho fatto la colazione americana. Ho guardato
con attenzione cuocere il mio hamburger tra gli altri sulla piastra e il
cuoco guardava me, cercando di capire, ma senza arrivare a
nessuna conclusione. Poi ho fatto il giro del blocco di case,
sbucando sulla Fifth Avenue e davanti al Metropolitan Museum sono
stato tentato di entrarvi, ma non ne ho avuto la forza. All’una ero già
sul mio divano e aspettavo Florence Baker tra un mare di giornali.
Quando alle tre in punto si è fatta annunciare, mi sono svegliato. È
venuta con arie più prudenti, professionali, il che mi ha messo di
malumore. La sua camicetta color pesco addolciva tuttavia i capelli
biondi e corti. Aveva portato una macchina per scrivere e un
taccuino. Ha accomodato tutto sul tavolo e vi si è arroccata dietro,
aspettando. Dopo un po’ ha detto: «Mister Fabro, sono pronta».
Ho replicato ricordandole che il nostro lavoro prevede enormi
silenzi ai quali dovremo abituarci, e una inevitabile intimità. «Non
voglio che lei si senta inutile se non batte sulla macchina o se non
prende appunti. Verrà il momento in cui mi sarà di aiuto, anzi la sua
sola presenza mi è già di aiuto. Se il nostro lavoro riuscirà, gran
parte del merito sarà suo» eccetera.
L’America: ho capito tutto dell’America il primo giorno che ci sono
arrivato, la prima volta; ma ora non capisco più niente.
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