Lo scarafaggio – Ian McEwan

SINTESI DEL LIBRO:
Quella mattina Jim Sams, un tipo perspicace ma niente affatto
profondo, si svegliò da sogni inquieti per ritrovarsi trasformato in una
creatura immane. Per un pezzo rimase disteso sul dorso (non
precisamente la sua posizione preferita) a osservarsi costernato i
piedi lontanissimi, l’esiguità degli arti. Appena quattro, naturalmente,
e pressoché inamovibili. Le sue zampette brune, per le quali già
provava una certa nostalgia, si sarebbero agitate disinvoltamente in
aria, seppure invano. Si mantenne immobile, deciso a non lasciarsi
prendere dal panico. Acquattato in bocca sentiva un organo umido,
un pezzo di carne scivolosa – ripugnante, specie quando prese a
muoversi di propria iniziativa per esplorare la vasta caverna
dell’apparato boccale e a scorrere, come ebbe a notare con muta
apprensione, su una infinità di denti. Si squadrò il corpo in tutta la
sua lunghezza. Il colorito, da spalle a caviglie, era di un azzurrino
smorto, attraversato, all’altezza di polsi e collo, da un sistema di
tubature di un azzurro piú intenso, e da una serie di bottoni bianchi
che scendevano in linea verticale lungo l’addome non segmentato.
La brezza lieve che lo percorreva a intermittenza, con il suo olezzo
tutt’altro che sgradevole di cibo in decomposizione e alcol etilico, la
interpretò come il suo fiato. Il campo visivo si era irrimediabilmente
ridotto – oh, cosa avrebbe dato per un occhio composto – e tutto ciò
che vedeva era prepotentemente variopinto. Stava cominciando a
capire che, per un grottesco fenomeno di inversione, le sue
vulnerabili carni si trovavano al momento all’esterno dello scheletro,
che gli risultava perciò completamente invisibile. Che conforto
sarebbe stata la vista anche fugace del suo anonimo marrone
cangiante.
C’era già parecchio di che allarmarsi ma, come se non bastasse,
mano a mano che il suo risveglio si faceva completo, si ricordò di
essere impegnato in una missione solitaria e cruciale, sebbene ora
come ora non ne avesse piú presente la natura. Farò tardi, pensò,
mentre tentava di sollevare dal cuscino una testa che non doveva
pesare meno di cinque chili. Che ingiustizia, si disse. Non me lo
merito. Aveva fatto sogni frammentari, oscuri e impervi, infestati da
echi cavernosi in costante disaccordo. Soltanto adesso, mentre la
testa tornava a crollargli indietro, cominciò a intravedere la via
d’uscita dal sonno e a recuperare mentalmente un mosaico di
ricordi, impressioni e propositi che si disperdevano mentre lui
cercava di bloccarli.
Sí, aveva lasciato senza nemmeno un saluto la cara decadenza
del Palazzo di Westminster. Cosí dovevano andare le cose. La
segretezza era tutto. Lo aveva intuito senza bisogno che glielo
dicessero. Ma quando si era mosso, esattamente? Di sicuro, era già
buio. La sera prima? Quella prima ancora? Doveva essere passato
dal parcheggio sotterraneo. E quindi, transitato accanto agli stivali
lustri del poliziotto all’ingresso. Ora gli tornava in mente.
Mantenendosi accosto alla canalina di scolo, aveva sgambettato
veloce fino a raggiungere il ciglio del terrificante attraversamento di
Parliament Square. Alla testa di una fila di veicoli smaniosi di
ripartire e spiaccicarlo sull’asfalto, si era fiondato verso la canalina
sul lato opposto. Dopodiché, gli era parso che ci volesse una
settimana prima del successivo, spaventoso attraversamento per
guadagnare il lato giusto di Whitehall. E poi? Un altro scatto di
svariati metri, senz’altro, e poi, fermo. Perché? Ecco che cominciava
a ricordare. Ansimando da ogni possibile dotto del corpo, si era
riposato accanto a un sano scarico per concedersi un boccone,
approfittando di una fetta di pizza gettata via. Non riuscí a finirla, ma
si difese abbastanza bene. Per fortuna la pizza era una margherita.
Quasi la sua prima scelta. Niente olive, purtroppo. Non su quella
fetta, almeno.
Quel testone ingestibile, scoprí, era in grado di effettuare, con
pochissimo sforzo, una rotazione di 180 gradi. Lo girò quindi da un
lato. Era una piccola stanza mansardata, sgradevolmente illuminata
dal primo sole, perché nessuno aveva tirato le tende. C’era un
telefono sul tavolino, anzi, due telefoni. Il suo sguardo limitato
percorse la lunghezza della moquette e si fermò sullo zoccolo della
parete e sul piccolo buco che vi si apriva nel margine in basso. Avrei
potuto levarmi da questa luce e infilarmi là sotto, pensò con
tristezza. Essere felice. In fondo alla stanza c’era un divano e, su un
tavolino basso, lí accanto, un tumbler in cristallo e una bottiglia vuota
di scotch. Appoggiato su una poltrona, un completo con camicia
piegata, fresca di tintoria. Vicino alla finestra, su un tavolo piú
grande, due dossier impilati uno sull’altro, entrambi rossi.
Cominciava a cavarsela a muovere gli occhi, avendo capito che
erano in grado di ruotare contemporaneamente senza sforzo da
parte sua. Anziché permettere alla lingua di ciondolargli fra le labbra
dove oltretutto tendeva a sbavargli sul petto, scoprí che era meglio
tenerla ritirata nello spazio grondante della cavità orale. Disgustoso.
Ma si stava attrezzando a governare quel formato nuovo. Imparava
in fretta. A preoccuparlo semmai era il bisogno di dedicarsi al suo
progetto. C’erano decisioni importanti da prendere. All’improvviso
qualcosa si mosse sul pavimento, attirando la sua attenzione. Un
esserino, di forma in tutto e per tutto simile alla sua di prima,
sicuramente il titolare sfrattato del corpo che attualmente abitava lui.
Con una certa dose di curiosità protettiva, osservò quel cosino
minuscolo arrancare tra i fili della moquette diretto alla porta. Giunto
a destinazione, si fermò, agitando le antenne gemelle con
l’incompetenza insicura del principiante. Infine, facendo appello a
tutto il suo coraggio, si infilò sotto la porta per dare inizio
all’avventura rischiosa e ruzzolante della discesa. C’era parecchia
strada da fare per tornare a palazzo, e molti pericoli lungo il tragitto.
Ma se ce l’avesse fatta senza essere ridotto in poltiglia, avrebbe
trovato, dietro la boiserie o sotto l’impiantito, sicurezza e conforto tra
milioni di suoi conspecifici. Gli augurò ogni bene. Ma adesso doveva
occuparsi dei suoi problemi.
E tuttavia Jim non si muoveva. Non avrebbe avuto alcun senso,
era inutile farlo prima di essere riusciti a ricostruire il percorso, gli
eventi che lo avevano condotto a ritrovarsi in quella camera da letto
sconosciuta. Dopo lo spuntino di fortuna aveva ripreso il tragitto,
quasi dimentico del trambusto sopra di lui, concentrato solo sul
proprio intento e mantenendosi rigorosamente all’ombra della
canalina di scolo, malgrado gli fosse impossibile ricordare per
quanto tempo e per quanta strada. Di una cosa era certo, che alla
fine si era imbattuto in un ostacolo torreggiante, un monticello di
sterco ancora tiepido e fumante. In qualsiasi altra circostanza,
avrebbe esultato. Si reputava un discreto intenditore in materia. Uno
che sapeva vivere. Questo particolare lotto, ad esempio, lo classificò
senza indugio. Come non riconoscere l’abboccato pastoso di noce,
con sentori di olio minerale, buccia di banana e grasso per cuoio? Le
Guardie a Cavallo! Che errore, aver mangiato fuori pasto. La pizza
margherita gli aveva rovinato l’appetito perfino di fronte a una
ghiottoneria del livello di quegli escrementi freschi, mentre la
sensazione di stanchezza crescente gli aveva sottratto ogni voglia di
dare la scalata al mucchio. Si acquattò quindi all’ombra del colle, sul
terreno cedevole delle sue pendici, e rifletté sulle alternative. Un
attimo dopo, gli fu chiaro il da farsi. Si preparò ad affrontare la parete
di roccia verticale del cordolo, deciso ad aggirare il cumulo e a
ridiscendere sul lato opposto.
Adesso, sdraiato a letto in quella mansarda, decretò che a quel
punto era avvenuta la scissione tra sé e il suo libero arbitrio, o
l’illusione dello stesso, e si era ritrovato a subire l’influenza di una
forza dominante piú grande di lui. Salendo sul marciapiede, come
appunto aveva fatto, si era assoggettato allo spirito collettivo. Era
diventato un minuscolo elemento all’interno di un sistema di una
magnitudo incomprensibile a qualunque individuo singolo.
Si era issato in cima al cordolo notando che le fatte di cavallo
proseguivano per un buon terzo del marciapiede. Poi, di punto in
bianco, gli calò addosso una tempesta improvvisa, il trapestio di
piedi a decine di migliaia, misto a canti, suono di campane, trombe e
fischietti. L’ennesima, chiassosa dimostrazione. A quell’ora di sera.
Una massa di incivili in strada a fare baccano quando avrebbero
dovuto essere a casa. Ultimamente, proteste del genere avevano
una frequenza pressoché settimanale. E comportavano l’interruzione
di servizi essenziali e l’impossibilità per la brava gente di occuparsi
delle proprie legittime attività quotidiane. Si bloccò sul gradino,
aspettandosi il peggio da un momento all’altro. Le suole di scarpe
lunghe quindici volte l’intero suo corpo pestavano terra a pochi
centimetri dal punto in cui lui cercava di rimpicciolirsi ancora di piú, e
facevano tremare non solo le sue antenne, ma perfino il selciato.
Che colpo di fortuna aver deciso a un tratto di alzare lo sguardo, in
uno spirito di totale rassegnazione. Era pronto a morire. Ma fu
proprio allora che gli si presentò l’opportunità: un vuoto all’interno del
corteo. La successiva ondata di contestatori era a una quarantina di
metri. Vedeva ondeggiare gli striscioni, le bandiere avanzare, stelle
gialle in campo azzurro. E qualche Union Jack. Non era mai
scappato tanto in fretta in vita sua. Boccheggiando attraverso ogni
stigma dei segmenti di cui si componeva il suo corpo, guadagnò il
lato opposto in corrispondenza di un massiccio cancello in ferro,
qualche secondo prima di averli di nuovo addosso col boato odioso
dei loro passi, e questa volta anche dei fischi e del rullo selvaggio di
tamburi. In preda a un terrore mortale misto a indignazione, un
cocktail in effetti poco efficace, sfrecciò sul marciapiede e, per
uscirne vivo, si infilò sotto il cancello nel rifugio e nella relativa
tranquillità di una via laterale dove riconobbe all’istante il tacco di
uno stivale di ordinanza delle forze dell’ordine. Un bel sollievo, come
sempre.
E poi? Procedette lungo il marciapiede deserto, superando una
fila di residenze esclusive. A quel punto si atteneva con sicurezza al
piano prestabilito. L’inconscio collettivo feromonale della sua specie
gli procurava una consapevolezza istintiva della sua direzione di
percorso. Dopo una mezz’ora di tragitto senza incidenti, si fermò,
come era inteso che facesse. Sul lato opposto della via si
accalcavano un centinaio di persone tra fotografi e cronisti. Dalla sua
parte, si trovò a livello con una porta poco lontana, fuori dalla quale
stazionava l’ennesimo poliziotto. E proprio in quel momento, la porta
si spalancò e ne uscí una donna in tacchi altissimi che per un soffio
non lo trafisse trapassandolo fra il nono e il decimo segmento
addominale. La porta rimase aperta. Forse stava per arrivare
qualcuno. In una manciata di secondi Jim ebbe modo di vedere un
ingresso accogliente, con luci soffuse e battiscopa in legno un po’
consumato: un segnale sempre positivo. Sull’onda di un impulso che
aveva ormai imparato a riconoscere come non suo personale, si
precipitò dentro.
Se la stava cavando piuttosto bene, date le circostanze
inconsuete, a ricordare dettagli simili pur essendo sdraiato su quel
letto mai visto. Era un conforto constatare che cervello e mente
avevano mantenuto gli standard di sempre. Dopotutto, anche lui era
rimasto essenzialmente quello di sempre. Era stata l’improvvisa
comparsa di un gatto a farlo scappare, non già nella direzione del
battiscopa, bensí verso le scale. Salí tre gradini e si guardò indietro.
Il gatto, un soriano bianco e marrone, non l’aveva visto, ma Jim
ritenne comunque pericoloso scendere. Diede quindi inizio alla lunga
scalata. Al primo piano c’era un viavai eccessivo sul pianerottolo,
dentro e fuori le stanze. Ancora il rischio di essere calpestato a
morte. Un’ora piú tardi, quando raggiunse il secondo piano, stavano
energicamente passando l’aspirapolvere sulla moquette. Era al
corrente di parecchie anime che avevano perso la vita in quel modo,
risucchiate in un polveroso oblio. Non c’era alternativa; gli toccava
continuare a salire finché… ora però, d’improvviso tornato quassú in
mansarda, ogni suo pensiero venne interrotto dal suono villano di
uno dei due telefoni accanto al letto. Pur essendosi scoperto
finalmente in grado di muovere uno degli arti, un braccio, non si
mosse. Non poteva fidarsi della sua voce. E anche se avesse
potuto, che cosa avrebbe detto? Non sono la persona con cui crede
di parlare? Dopo quattro squilli, il telefono tacque.
Tornò a coricarsi in attesa che gli si placasse il cuore in subbuglio.
Provò a muovere le gambe. Alla fine, se Dio vuole, si spostarono ma
di un paio di centimetri, non di piú. Riprovò con un braccio e riuscí a
sollevarlo fino in alto sopra la testa. Dunque, tornando alla storia…
Si era issato sull’ultimo gradino per giungere senza fiato al
pianerottolo in cima alla scala. Si era infilato di soppiatto sotto la
porta piú vicina, dentro un piccolo appartamento. Di norma, si
sarebbe diretto subito in cucina ma quella volta si era arrampicato su
per la spalliera del letto per andarsi a intrufolare completamente
sfinito sotto un cuscino. Doveva aver dormito sodo per… ma,
accidenti, sentí dei colpetti alla porta e, senza aver tempo di
rispondere, l’uscio della stanza si aprí. Una giovane donna in tailleur
pantalone beige comparve sulla soglia e annuí bruscamente prima di
entrare.
– Ho provato a chiamare, ma poi ho pensato che era meglio
salire. Signor Primo Ministro, sono quasi le sette e mezza.
Non aveva idea di che cosa rispondere.
La donna, senz’altro un’assistente di qualche genere, entrò nella
camera e prese la bottiglia vuota. Aveva modi un po’ troppo spicci.
– Seratona, a quanto vedo.
Impossibile rimanere in silenzio ancora a lungo. Dal letto tentò un
suono inarticolato, a metà fra il lamento e il gracidio. C’era di peggio.
Un po’ piú stridulo di quanto avrebbe voluto, con un accenno di
pigolio, ma relativamente plausibile.
L’assistente stava indicando i dossier rossi sul tavolo piú
spazioso. – Non avrà avuto tempo, immagino…
Per andare sul sicuro, ripeté lo stesso verso di prima, solo su una
nota piú bassa questa volta.
– Magari, dopo colazione, potrebbe… Le ricordo che è mercoledí.
Consiglio alle nove. Priorità del governo, e poi Pmq alle dodici.
Prime Minister’s Questions. Quante ne aveva ascoltate, di quelle
sessioni di Quesiti al primo ministro, acquattato attonito dietro la
boiserie cariata, in compagnia di alcune selezionate migliaia di
amici… Gli erano ormai cosí note le domande strillate dal leader
dell’opposizione, le geniali risposte del tutto illogiche, le festose
esclamazioni e i sapienti belati di scherno. Che sogno, ritrovarsi nel
ruolo di primo uomo di quella operetta settimanale. Ma ne sarebbe
stato all’altezza? Non meno di chiunque altro, alla fine. Perlomeno
dopo aver dato una rapida scorsa alle carte. Come molti individui
della sua specie, non gli spiaceva pensarsi in piedi davanti a una
cassetta dei dispacci. Ci avrebbe presto preso la mano, pur
avendone solo due.
Nello spazio che un tempo ospitava una mandibola di tutto
rispetto, la ripugnante fetta di tessuto carnoso prese a spostarsi per
arrivare a emettere il primo campione di parola umana.
– Perfetto.
– Le faccio preparare il caffè di sotto.
Aveva spesso sorseggiato caffè nel cuore della notte, sul
pavimento della sala da tè. Purtroppo lo teneva poi sveglio di giorno,
ma il sapore del caffè gli piaceva tanto, specie se con latte e quattro
zollette di zucchero. Ritenne che dovesse essere cosa nota ai
membri del suo staff.
Non appena l’assistente ebbe lasciato la stanza, scostò d’un
colpo le coperte e finalmente riuscí a lanciare le gambe gonfie come
tuberi sulla moquette. Si ritrovò in piedi a un’altezza vertiginosa, in
leggero ondeggiamento, con le morbide mani ceree premute contro
la fronte, e di nuovo gli uscí un roco lamento. Qualche minuto dopo,
mentre vacillava alla volta del bagno, quelle stesse mani presero a
sfilargli agilmente il pigiama. Si tolse i pantaloni e appoggiò i piedi su
piastrelle gradevolmente riscaldate. Lo divertí parecchio produrre un
poderoso fiotto d’acqua, dirigendolo all’interno di un’apposita tazza
in ceramica; l’operazione lo mise di buonumore. Quando però si
volse verso lo specchio sul lavandino tornò a deprimersi. L’irsuto
ovale della faccia ciondolante sullo stelo massiccio di un collo rosa lo
disgustò. Le due capocchie di spillo degli occhi lo sconvolsero. Il
cerchione di tumida carne scura che incorniciava la schiera di denti
bigi gli diede il voltastomaco. Ma sono qui per una causa onorata e
passerò sopra ogni cosa, si disse rassicurante, mentre apriva a due
mani i rubinetti dell’acqua e si sporgeva a prendere sapone e
pennello da barba.
Cinque minuti piú tardi provò un senso di nausea quando, ancora
ondeggiante, contemplò la prospettiva di mettersi addosso gli abiti
già predisposti per lui. Quelli della sua specie andavano molto fieri
dei propri splendidi corpi lucenti e non avrebbero mai preso in
considerazione l’ipotesi di coprirli. Mutande bianche, calzini neri,
camicia a righe bianche e azzurre, completo scuro, scarpe nere.
Notò imperturbabile la destrezza automatica con cui le sue mani gli
allacciavano le scarpe e, subito dopo, di ritorno davanti allo specchio
del bagno, gli facevano il nodo alla cravatta. Mentre si pettinava i
capelli bruno-rossicci, non poté trattenere un moto di nostalgia,
riconoscendo lo stesso colore del suo buon vecchio guscio. Se non
altro è rimasto qualcosa del mio aspetto di un tempo, si consolò
malinconico, dirigendosi infine in cima alle scale.
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