L’energia del vuoto – Bruno Arpaia

SINTESI DEL LIBRO:
Soltanto provinciali. Niente autostrade, niente nazionali. Al massimo,
stradine secondarie, di quelle colorate in giallo, o addirittura in
bianco, sulla carta. Fino a Marsiglia, ci metterà del tempo, troppo. Gli
toccherà passare tutti i paesini sparsi dal Padreterno per le
campagne svizzere e francesi, rischiando di incrociare una pattuglia
della polizia o qualche vigile un po’ troppo zelante. Ma almeno, a
quelli che l’inseguiranno, renderà il compito molto meno facile.
Pietro Leone guarda nello specchietto le luci di Ginevra sempre
più lontane, poi Nico che dormicchia disteso sul sedile, con la
console ancora tra le mani. Davanti a sé, solo la strada e il bosco, e i
fari che fanno a fette il buio oltre i tornanti. Diosanto, il cellulare... Ma
come ha fatto a non pensarci prima? Bisogna spegnerlo, e poi
sconnettere anche la batteria. E il GPS? Pure. Non è sicuro che
possa servire a rintracciarlo, ma è meglio, molto meglio non
rischiare.
Quando è uscito di casa, trascinandosi Nico ancora mezzo
addormentato, ha fatto solo in tempo a ricordarsi che non dovrà mai
usare né bancomat né carte di credito. Ha raccattato cinque o
seicento franchi e centottanta euro nascosti nei cassetti, più una
bottiglia di acqua purificata mezza piena. Così è partito: in fretta e
furia, quasi senza bagaglio, sudato come un pugile, con Nico che
piagnucolava e gli chiedeva «Papà, ma dove andiamo? E
mamma?», «Poi ci raggiunge, non ti preoccupare », la voce rotta
mentre lo diceva, un temporale in testa e un morso di dolore nello
stomaco quando pensava a Emilia. E ora le strisce gialle e il buio
oltre la strada, e il caldo, già quasi trenta gradi. Cose da pazzi: a
maggio, passata mezzanotte... Se non l’avessero messa fuorilegge
due anni prima, avrebbe almeno acceso l’aria condizionata, e invece
ora gli toccano le mani sudaticce sul volante, le ascelle umide, le
folate di aria appiccicosa che lo assalgono attraverso il finestrino.
«Papà, quando arriviamo?»
«Ci vuole ancora tempo, Nico. Dormi...»
Hanno passato il confine da Chancy, poi Pietro, dopo Bellegarde,
si è imbucato per le stradine interne lungo il Rodano fin quasi a
Chambéry. Adesso viaggia sulla provinciale tra Saint-Bueil e
Chirens, più o meno in direzione di Valence, un occhio alla cartina
piegata sul sedile e un altro allo specchietto per controllare di non
essere seguiti. Niente, nessuno, nemmeno un’automobile. L’unico
guaio è che ormai ha le palpebre pesanti, l’adrenalina che sta
lasciando il posto alla stanchezza. Quando sente la ruota sobbalzare
sul ciglio della strada, quando è costretto a dare un colpo di volante
per ritornare sulla carreggiata, Pietro si rende conto che ha molto,
troppo sonno, che è arrivato il momento di fermarsi. Soltanto un
riposino, dieci minuti, venti, e poi di nuovo in pista. Rischioso, ma
non ha altra scelta.
La ghiaia dello spiazzo cricchia sotto le ruote, fin quando Pietro
parcheggia accanto a un vecchio tiglio. Nico dorme ancora. Intorno,
tranne l’insegna rossa del ristorante chiuso, c’è solo un fitto buio.
Scende a pisciare, sale dall’altra parte e tira giù il sedile. Il tempo di
riprendersi, si dice; un quarto d’ora, venti minuti al massimo. Si
sistema su un fianco e chiude gli occhi. La brezza, tra le foglie, è un
sussurrare scuro, due labbra che trangugiano i rumori, fermi in
agguato sotto il cielo nero.
C’erano quasi. Gli ultimi calcoli, le ultime tarature con i raggi cosmici,
altre simulazioni con dati Monte Carlo, le ultime verifiche dei
calorimetri e delle camere a muoni, e poi, quando arrivava il
benedetto fascio, sarebbero stati pronti per partire. Emilia sollevò lo
sguardo dallo schermo e sbirciò Rudy con un sorrisino, ma a lui
sembrò che sul suo viso ci fosse più stanchezza che soddisfazione.
«Ora smettiamo» disse. «Siamo troppo stanchi. Meglio farle
domani, le verifiche... Abbiamo ancora tempo... »
Erano le otto e mezza e fuori era già buio, ma lì, al centro di
controllo provvisorio, a un centinaio di metri sotto terra, le stesse luci
al neon perennemente accese facevano confondere le due di notte e
le dieci del mattino.
«Va bene» si decise Emilia. «Però domani ricontrolliamo tutto dal
principio.»
Emilia Viñas era di Madrid e Rudy Zoller era nato a Amburgo. Lei
aveva fatto il dottorato al Mit e lui al Caltech. Lei, con il suo gruppo di
fisici spagnoli, aveva messo a punto un rivoluzionario calorimetro per
decifrare le energie di fotoni ed elettroni; lui, giovanissimo, era il
migliore segugio europeo di particelle: gli bastava guardare una
schermata per intuire a colpo d’occhio, in quella specie di complicato
fuoco d’artificio di processi, tracce, decadimenti ed energie
mancanti, che cosa era successo in quel mondo minuscolo e
segreto, simile a quello che aveva dato inizio all’universo. Ora, lì al
Cern, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, erano i
vicedirettori di uno degli esperimenti dell’Lhc, il Large Hadron
Collider, il più potente acceleratore mai costruito al mondo, al quale
lavoravano più di ottomila fisici, tecnici e ingegneri di una sessantina
di paesi.
Nell’ascensore che li riportava in superficie, Rudy stette in silenzio
mentre Emilia, le guance in dentro, le labbra strette in fuori, si
scrutava la faccia nello specchio che aveva tirato fuori dalla borsa e
si aggiustava i capelli con le dita.
«Oddìo, che occhiaie... E guarda queste zampe di gallina attorno
agli occhi...»
«Colpa del neon, non ti preoccupare.»
Emilia si voltò e sorrise.
«No, no: colpa degli anni, colpa del lavoro...»
Le porte si aprirono in un soffio prima che Rudy potesse
architettare una risposta ironica e galante. Rimase zitto. Superarono
le porte di sicurezza, misero a posto i caschi dentro l’armadietto, si
sganciarono i badge per le radiazioni e percorsero l’hangar quasi
vuoto, zeppo solo di cavi, bobine, variatori, di valvole e di giunti, di
gru, ponteggi e pezzi di magneti: lei avanti, a passi svelti, lui dietro,
con l’andatura lenta di chi non ha nessuno a casa che l’aspetti e non
ha avuto il tempo di organizzarsi in qualche modo la serata. Fuori dal
capannone, salirono sulla macchina di Emilia e attraversarono i
paesini vuoti e silenziosi finché non videro le garitte del posto di
frontiera con la Svizzera, le bandiere e i pennoni dell’ingresso, il
parcheggio del Building 40. Lì Rudy scese. Nel buio illuminato dai
lampioni, si sentivano solo i suoi passi sull’asfalto e il ringhio sordo
del raffreddamento dei computer al Building 513. Lui si avviò alla
caffetteria, e lei verso le strade di campagna lungo la frontiera, verso
la cena insieme a Pietro e Nico. Quando passò la sbarra e imboccò
il viale, una Peugeot grigio metallizzato sbucò da una traversa e le
andò dietro.
Quando apre gli occhi, il sole è già qualche centimetro sopra la
collina e Nico lo sta scuotendo per la spalla.
«Papà, sei sveglio?»
«Sì, Nico, sì. Sveglissimo.»
Le sette meno venti. Il «riposino» è durato quattro ore. Come
fuggiasco, è una vera mezzasega.
«Papà, ma dove siamo?»
«In Francia, più o meno a metà strada da Marsiglia.»
«E mamma?»
«Te l’ho già detto: ci raggiunge dopo, in Spagna.»
Pietro sbadiglia, socchiude la portiera e scende per guardarsi
intorno. Tutto tranquillo: la provinciale vuota, il vecchio tiglio sopra la
sua testa, la ghiaia dello spiazzo, il bar ancora chiuso, i campi incolti,
un casolare in pietra sopra la collina, la luce del mattino che pennella
l’aria di venature vivide e sanguigne. Quella tranquillità, quel lento
battito delle cose intorno, per qualche istante gli fanno immaginare di
non aver mentito: forse quel viaggio è veramente solo una vacanza,
forse quell’ultimo anno e mezzo è stato solamente un brutto sogno,
forse, dopo Marsiglia, Emilia prenderà un volo per Madrid e
andranno tutti insieme al mare a Cadaqués o in giro per l’Andalusia.
«Papà, chiamiamo mamma?»
E invece no. Non è per niente un sogno.
«Mi è morto il cellulare, Nico. E poi è ancora presto... Se non sta
lavorando, mamma starà dormendo. Magari la chiamiamo dopo.»
Decisamente no, non è una vacanza. Emilia non prenderà quel
volo. E bisogna rimettersi per strada. Subito.
«Ora fai la pipì e partiamo.»
«Ma ho fame...»
«Facciamo colazione dopo. Al primo bar aperto, giuro che ci
fermiamo.»
L’aria è già tiepida, quando mette in moto. Ai lati della strada,
prima delle colline, si snoda una campagna stenta, gialla e assetata
come se fosse luglio. Pietro guarda e riguarda lo specchietto e
intanto Nico ha gli occhi fissi sulla sua console, riaccesa appena il
padre ha messo in moto. Passano da Brion e Chasselay, e poi si
aggirano per le stradine della periferia di Varacieux, prima di
rintracciare un bar aperto. È un localino stretto e malandato, con un
bancone logoro, il pavimento smangiato dalla rogna, tre o quattro
tavolini verso il fondo.
«Buongiorno. Ci dà un caffè di acqua purificata, un caffelatte e un
paio di croissant?»
Nico mangia in silenzio, andando su e giù con una mano in tasca
e la console stretta sotto l’ascella. Nemmeno Pietro dice una parola,
ma inizia a borbottare appena fuori.
«Che ladri... Cinque euro e trenta per un caffè di pura. A Ginevra
lo fanno a quattro franchi.»
E Nico zitto. Richiude lo sportello, si mette la cintura e accende la
console. Soltanto quando arrivano fuori dal paese alza di nuovo gli
occhi dallo schermo.
«Mando una mail a mamma» annuncia al padre.
«No, Nico, no...»
Pietro lo dice un po’ troppo di scatto, troppo preoccupato. Appena
se ne accorge, cerca di ritrovare un tono più normale: «Meglio non
disturbarla, adesso. Te l’ho già detto: magari la chiamiamo un po’ più
tardi...»
«E dai, una mail... Che sarà mai una mail?»
«Meglio che non la mandi, dammi retta. Ti spiego tutto dopo...»
Per tre o quattro minuti, Nico si finge attento ai platani che vanno e
vengono al di là del finestrino, ai grandi serbatoi di un casolare, a un
vecchio camion che attraversa un campo. Dopo si volta, fissando il
padre che sta guidando con le mascelle strette. Vede perfino un
guizzo di tensione scuotergli la guancia. E allora glielo chiede.
«Dimmi la verità, papà: stiamo scappando?
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