Le colpe della notte – Antonio Lanzetta

SINTESI DEL LIBRO:
Cristian conosceva due cose della vita. La prima era che a World of Warcraft
un party di giocatori non aveva alcuna speranza di abbattere un boss di livello
epico, se i guaritori facevano schifo.
Sulla seconda cosa, invece, non aveva dubbi. Suo padre era uno stronzo.
«Te ne stai tutto il tempo chiuso in quella stanza» gli disse mentre arrotolava
gli spaghetti intorno alla forchetta. «Per fare cosa, poi? I giochini al
computer?»
Cristian guardò il padre e si morse un labbro. Che senso aveva rispondere?
Qualsiasi cosa avesse detto o fatto, per il commissario Scalea non sarebbe
stata abbastanza. E pensare che la giornata era cominciata con una A+ al
compito di trigonometria. Il voto più alto della classe avrebbe dovuto rendere
l’atmosfera più leggera a cena, e invece no.
«Quello che tuo padre vuole dire» la mamma posò la forchetta e gli mise una
mano sul braccio, «è che non c’è niente di male nel fare una partita ai
videogiochi, ma non può esistere solo quello. Devi uscire, frequentare i tuoi
compagni di classe. Avere amici è importante…»
«Ma io ho amici! Ne sono pieno.»
«È pieno di amici!» Il padre sorrise. «Dimmi un po’, e li hai mai visti, questi
amici? No… non intendo su Skype, ma dal vivo. Ci hai mai parlato di
persona? Siete mai andati a farvi una partita di pallone insieme o a prendere
un gelato?»
Le orecchie di Cristian divennero di fuoco. Spinse gli occhiali con un dito
verso la fronte e scosse il capo. Non riusciva a credere che quella
conversazione stesse accadendo davvero.
«I ragazzi a scuola fumano le canne nei cessi: dovrei essere come loro?
Dimmelo, papà! Il mio compagno di banco non ha mai letto un libro e crede
che Led Zeppelin sia il nome di una medicina. Vuoi fare a cambio? Prova a
chiamare i suoi genitori e vedi se te lo prestano per un paio di settimane.»
«Sei tu nostro figlio» la mamma scostò il piatto e provò ad accarezzargli il
viso, ma Cristian spostò la testa di lato ed evitò il contatto, fissando il padre.
«Fai sempre così» disse. «Manchi per settimane, a volte mesi, e quando torni
credi che io debba subire le tue lezioni di vita? Tu… tu ti sei perso tutto di
me.»
Il viso del commissario Scalea si rabbuiò. «Io lavoro.»
«Ah, certo, il lavoro viene prima di ogni cosa. Chi se lo scorda?»
«Il lavoro ti paga il cibo che mangi, la connessione internet e l’elettricità con
cui accendi il tuo computer. Lo sai questo?» Il padre ingollò un bicchiere di
birra e si rivolse alla madre, come se Cristian non fosse più lì. «A che serve
pagare tutti quei soldi per le sedute, se questo è il risultato?»
«La dottoressa è convinta che stia facendo progressi» rispose la donna. «Ha
ripreso a dormire regolarmente e ha perso anche peso.»
«Li vedo, i progressi.» Scalea indicò l’addome del figlio e sorrise. «Sai che
cosa penso, Cri? Noi ci preoccupiamo per te, vogliamo che le cose vadano
bene. Vogliamo che tu cresca in modo equilibrato ma non basta, e sai perché?
Perché sei tu a non volerlo.»
«È perché sono grasso?» chiese il ragazzo. «Le pillole mi hanno fatto
ingrassare! La merda che mi ha dato la dottoressa per…»
Il padre scosse il capo. «Come la mettiamo se io adesso vado nella tua stanza
e stacco la presa del pc?»
«No» Cristian strinse i pugni.
«Cosa, no?»
«Non puoi farmi questo, devo postare su YouTube gli stream delle mie
partite, altrimenti perderò visualizzazioni e…»
«Oh, lo faccio eccome» il commissario si alzò di scatto. «Sono stanco di
discutere di queste stronzate.»
Cristian provò ad afferrare un braccio del padre mentre girava intorno al
tavolo e puntava dritto verso la sua stanza. Sotto la pelle e gli addominali
flaccidi, lo stomaco gli si strinse in una morsa.
«Il computer è mio» gridò con voce stridula. «L’ho comprato con i miei
risparmi.»
«I suoi risparmi» gli fece eco il padre, poi alla voce subentrò il rumore di
una maniglia abbassata con foga, delle rotelle della sedia da pro gamer che
strusciavano sul pavimento. Cristian non sapeva cosa fare, sentiva il sangue
ronzargli nelle orecchie. La sala da pranzo prese a ondeggiare come una
barca al largo. Le lampade appese al soffitto oscillarono e la luce divenne
così intensa da fargli stringere gli occhi. Gli bruciavano le palpebre.
No, ti prego. Non dirmi che sto per mettermi a piangere.
Cristian si voltò verso la madre. «Se lo fa, me ne vado. Giuro che lo faccio.»
«Amore, non fare così… la dipendenza dai videogiochi è una malattia…»
«Cioè? Mi stai dicendo che sono pazzo?» Il ragazzo sbarrò gli occhi. I suoni
provenienti dalla sua stanza divennero assordanti. «È questo che credi? Che
sono malato?»
Non le diede il tempo di rispondere.
Cristian rovesciò la sedia e corse verso l’ingresso. Gli mancava l’aria, non ce
la faceva a restare in quella casa. Strappò il giubbino dall’attaccapanni, prese
il mazzo di chiavi dallo svuotatasche, spalancò la porta e la sbatté alle sue
spalle. Voleva sparire, allontanarsi il più possibile dalle buone maniere della
madre e dal disprezzo di suo padre. Gradino dopo gradino, comprese che non
gli importava nulla del computer. Suo padre poteva anche dargli fuoco, se
credeva che questo avrebbe risolto i problemi. Era il pensiero di essere un
fallito, che gli faceva più male. Arrivato al secondo piano, guardò la propria
immagine riflessa nel vetro dell’ascensore, la fronte ridotta a un campo
minato di brufoli, gli occhi piccoli dietro le lenti, e provò disprezzo. Come
aveva fatto a ridursi in quello stato? Ricordava gli album delle elementari.
Nelle foto sorrideva, aveva sulla testa un ammasso di riccioli castani che tutti
volevano toccare, e anche i genitori erano felici. Poi la voce era cambiata,
diventando qualcosa di simile al verso di un rospo, e il ricordo di quel
bambino simpatico si era sgretolato come una statua di sabbia battuta dal
vento. Cristian aveva iniziato a sentirsi diverso, a capire più degli altri, e i
compagni avevano cominciato a non invitarlo più alle feste. Dicevano che
puzzava, ma non era vero.
Nella tasca dei jeans, il cellulare gli vibrava impazzito. Cristian lo ignorò e
infilò la chiave nel quadro dello scooter parcheggiato sotto il portone. Rischiò
di perdere l’equilibrio mentre scendeva dal marciapiede. Diede un colpo di
gas e fissò le luci gialle dei lampioni. C’era qualcosa di strano nel modo in
cui si proiettavano sulle pozzanghere lasciate sull’asfalto dalla pioggia. Solcò
una chiazza d’acqua con il motorino e si morse il labbro. Tutto aveva un
prezzo, anche le illusioni.
2
Tu non hai amici.
Era diventata il suo mantra, quell’affermazione. Il padre gli aveva rinfacciato
la sua solitudine per così tanto tempo che Cristian si era convinto di non
meritare l’amicizia di nessuno. Negli sguardi e nei sorrisi dei compagni del
liceo coglieva tutto il distacco che lo faceva sentire diverso. Con i ragazzi
della gilda era un’altra cosa. Lo conoscevano per quello che era: un guerriero
leale, uno come loro. Aveva condiviso sulla chat del clan quello che gli era
capitato e il suo capo, Sir Trent, gli aveva scritto in privato.
«Devi tornare a casa, che fai in giro?»
«Non posso, non ce la faccio.»
«Ascoltami bene, Krys.»
Krys era il suo avatar. Gli piaceva sentirsi chiamare in quel modo, anche
sulla chat vocale del software TeamSpeak. Lo faceva sentire forte, sicuro di
sé. Lui era un mago, uno che usava la testa e controllava gli elementi in
battaglia, e non un grasso sfigato di diciassette anni con l’acne e la miopia.
«Dimmi, capo» rispose, nascondendo il volto dietro il colletto della giacca.
Allungò i piedi sul selciato, le chiappe schiacciate su una panchina.
«Ho figli anche io» disse Sir Trent. «I tuoi genitori saranno preoccupati.
Vuoi farli morire di spavento? Sono le undici e fa freddo. Gli hai dato un
segnale, adesso sii ragionevole e torna a casa. Vedrai che ti ascolteranno.»
«Hai davvero dei figli?» Cristian era sorpreso. Giocava e parlava con
l’amico da più di un anno, e ignorava che età avesse.
«Già, sono padre di due troll. La più grande ha quasi i tuoi stessi anni.»
«Vorrei che i miei capissero.»
«Ci provano, Krys, ma non è facile. Non ti danno il manuale d’istruzioni,
quando ti nasce un figlio. Adesso non fare il pivello e torna a casa. Sbrigati.»
«Ok. Trent?»
«Che c’è?»
«Grazie.»
Cristian infilò lo smartphone nella tasca e si alzò dalla panchina. In
lontananza, da qualche parte nel parco dove si era fermato a riflettere, gli
giunse l’eco di una risata, poi lo schianto di una bottiglia sull’asfalto. Il
ragazzo lanciò un’occhiata alle sue spalle e saltò in sella. Attraversò il
quartiere, girando intorno a palazzi monolitici tutti uguali e a negozi dalle
serrande abbassate. Arrivò sotto il portone convinto di trovare la strada
illuminata dalle sirene delle volanti e schiere di poliziotti ad aspettarlo, invece
no. Tutto tranquillo. Sua madre aveva provato a chiamarlo un paio di volte,
poi aveva smesso. Forse volevano lasciargli il tempo di respirare.
Hanno capito d’aver sbagliato e speravano che tornassi.
Cristian sorrise. Lasciò il motorino nello stesso posto in cui l’aveva
parcheggiato prima di cena. Mise il lucchetto, aprì il portone e premette il
pulsante dell’ascensore. Sbadigliò e si strofinò un occhio, lasciando gli
occhiali storti sul naso. Era esausto, non vedeva l’ora di mettersi a letto.
Mentre raggiungeva il suo piano, cercò di pensare alle cose da dire. Provò le
battute come il copione di una recita, ma gli si chiudevano le palpebre e
faceva fatica a pensare.
Aprì la porta di casa pronto a essere assalito da miliardi di domande, invece
trovò il corridoio buio ad accoglierlo. Chiuse il battente alle sue spalle e
rimase nell’ingresso per un tempo che gli parve infinito, osservando il cono
di luce proiettato sul pavimento dal lampadario della cucina. Mise un piede
davanti all’altro, il passo leggero manco stesse camminando a piedi nudi su
un tappeto di vetri rotti. Era bello essere a casa, sentire il tepore nell’aria;
però, per qualche strano motivo, non riusciva a tirare un sospiro di sollievo.
Non aveva nemmeno tolto la giacca.
«Mamma?» Si fermò sulla soglia. Il padre era seduto a tavola, con la testa
piegata di lato in modo innaturale e le braccia distese lungo il corpo. In una
mano stringeva la pistola d’ordinanza. Le dita lottavano per non perdere la
presa sul calcio.
Cristian abbassò lo sguardo, seguì le impronte lasciate da mani sporche di
sangue sui mobili bianchi e trovò la madre. Era seduta sul pavimento. I
capelli ricci gli ricordavano i suoi in quelle vecchie foto d’infanzia. Un
cespuglio castano e morbido che ti veniva voglia di accarezzare. C’era
qualcosa di strano nella sua fronte, la tempia era gonfia e rivoli scuri le
scorrevano sulle guance. Gocciolavano sul pavimento in un ticchettio lento e
cadenzato.
Il ragazzo fece un passo indietro, le ginocchia troppo deboli per reggere il
peso del corpo. Avrebbe voluto gridare tutto il suo orrore, ma rimase in
silenzio mentre andava giù. Era come se mani nere fossero emerse dal
pavimento per trascinarlo all’inferno.
Incrociò gli occhi morti della madre ed ebbe un brivido. Nelle iridi verdi
sembravano intrappolate migliaia di domande. Cose non dette che il tempo
non avrebbe più potuto aggiustare. Poteva coglierle tutte, Cristian. Afferrarle
come granelli di polvere in un fascio di luce.
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