La memoria del cuore – Jan-Philipp Sendker

SINTESI DEL LIBRO:
Tutte le storie parlano d’amore, disse mio zio. Le grandi e le piccole,
le belle e le meno belle, quelle che ci rendono tristi e quelle che ci
dovrebbero consolare.
Eravamo seduti per terra in cucina, fuori era buio e aveva
rinfrescato un po’. Mio zio cominciò ad avere freddo, io mi alzai,
presi una coperta, gliela misi sulle spalle e tornai a sedermi.
Davanti a noi scoppiettava un fuoco. Fissai la brace
incandescente e mi accinsi ad ascoltarlo, anche se non ero sicuro di
capire bene tutto quello che mi raccontava.
Sia che le storie siano state inventate secoli o millenni fa in terre
lontane e straniere, spiegò lui, o ieri sera in una piccola capanna
sull’altra sponda del fiume, tutti i grandi racconti conoscono un unico
argomento: lo struggimento dell’uomo per amore.
Mi stai a sentire, Bo Bo?
Annuii.
Non esiste forza più grande, proseguì lui a voce più sommessa,
che noi vogliamo ammetterlo o no. Infinito è il numero dei suoi volti e
colori, delle sue lingue e forme. Per questo anche i poeti non si sono
mai occupati d’altro, né d’altro mai si occuperanno. Ed è un bene,
perché noi abbiamo la tendenza a dimenticarlo.
Osservò il mio viso stupito, si chinò verso di me, come se volesse
rivelarmi un segreto – invece poi rimase in silenzio.
Sapevo che faceva così. Nelle settimane passate avevamo
trascorso molte sere insieme davanti al fuoco e lui mi aveva
raccontato tante storie, che a un certo punto s’interrompevano
bruscamente.
Di quando lui era piccolo e il mondo ancora grande, perché a
Kalaw non c’erano né auto né televisori.
Di sua moglie, morta davvero troppo giovane.
Di sua madre, che gli aveva insegnato che non si superano le
distanze con i passi.
E di un ragazzo che, a quanto si diceva, riusciva a riconoscere le
farfalle dal suono del loro battito d’ali.
Molto, di quei racconti, sembrava misterioso. Nessuno riesce a
sentir volare le farfalle. Ma non erano mai noiosi e io seguivo
volentieri le sue parole.
Ma cosa mi è venuto in mente ancora, lo sentii mormorare. Dove
si andrà a finire? Di cosa sto parlando? Cosa può mai sapere un
ragazzo della tua età dell’amore?
Cosa avrei dovuto rispondergli? Che ne sa un dodicenne
dell’amore?
Nulla.
Perlomeno non molto.
O forse più di quanto lui immagini?
La nostra conversazione quella sera finì con la sua domanda, e
ne fui deluso. Sarei rimasto volentieri ad ascoltarlo ancora per molto:
mio zio ha una bellissima voce. Quando parla a lungo, io dimentico
tutto ciò che la vita a volte mi rende difficile. Come un tempo,
quando lui ogni sera mi cantava la ninnananna finché mi
addormentavo.
Come potevo immaginare che sarebbe stato solo l’inizio di una
lunga storia? Una storia alla fine della quale avrei capito quel che lui
aveva cercato di dirmi in quelle settimane, nei modi più diversi,
attraverso le parole ma anche i silenzi.
La mattina seguente mio zio cominciò a raccontare di sua sorella
minore. Era un evento davvero speciale.
Era sdraiato sul divano sotto una coperta leggera; io gli avevo
infilato due piccoli cuscini sotto la testa, preparato un tè e mi ero
seduto per terra davanti a lui. Aveva di nuovo gli occhi chiusi e la
bocca un po’ aperta, solo una fessura, e sembrava che si fosse
addormentato. Aveva smesso di piovere e gli uccelli cinguettavano;
io stavo per alzarmi piano per andare in cortile a dar da mangiare
alle galline, quando lui sussurrò il mio nome.
«Bo Bo» chiese, «sei qui?»
Invece di rispondere gli presi la mano. Lo faccio spesso, è così
bella calda e morbida. Lui sorrise senza aprire gli occhi. La tenni
stretta, a lui piace, soprattutto quando è stanco oppure si sveglia di
notte e mi chiama, perché non riesce a riaddormentarsi.
Negli ultimi tempi è spesso stanco, specialmente al mattino. A
volte ho paura che si ammali, ma lui dice che la devo smettere di
preoccuparmi di continuo, che dipende solo dall’età, a quasi
ottant’anni un uomo è stanco, ogni tanto. Non posso dire se sia
davvero così, perché ho solo dodici anni e non conosco altri
ottantenni. Non così bene, almeno.
Rimanemmo zitti per un po’. Nel cortile il bambù scricchiolava al
vento, intorno a noi ronzava qualche mosca. Dai vicini arrivava il
profumo di curry fresco. U Ba mi strinse la mano e cominciò a
raccontare.
Sua sorella aveva un grande cuore ed era la donna più bella che
lui avesse mai incontrato, a parte sua moglie, naturalmente. E sua
madre. I suoi movimenti erano eleganti e leggiadri come quelli di una
ballerina. Le brillavano gli occhi con un’intensità mai vista, e alla sua
risata ci si poteva riscaldare.
Non so se sia vero, è talmente tanto tempo che non la vedo che
non mi ricordo più che aspetto abbia, né come risuoni la sua risata e
se davvero riesca a riscaldare.
«Vi assomigliate?» volli sapere.
Rifletté a lungo, e io già temevo che si sarebbe limitato a tacere.
«Sì e no» rispose infine. «Capita così, tra fratelli. In tante cose
sono molto simili, in altre così estranei da far male».
Io non ho fratelli né sorelle o, nel caso li abbia, non li conosco,
perciò non posso esprimere un giudizio. Io ho U Ba, mio zio, e lui
non mi è estraneo, perlomeno non al punto da far male.
«Quanti figli ha lei?» chiesi timidamente.
U Ba scosse la testa e corrugò anche la fronte, senza rispondere.
Non avevo la minima idea di cosa volessero significare quei gesti.
Non è sempre facile capire gli adulti, secondo me.
C’erano tantissime cose che avrei voluto chiedere su sua sorella.
Per esempio se era sana, se stava bene, e se magari una volta
sarebbe potuta venire a trovarci, ma già sapevo che da lui non avrei
avuto nessuna risposta.
Perché non smettesse di raccontare, mi sedetti vicino a lui sul
divano, gli presi i piedi tra le mani e cominciai a massaggiarli. Gli
faceva bene, e quasi sempre lo rendeva più loquace.
«U Ba, raccontami ancora di lei» gli chiesi, nella speranza di
scoprire magari qualcosa di nuovo sul suo conto. «Raccontami la
sua storia».
«Un’altra volta» rispose, e sbadigliò.
«No, adesso. Ti prego».
Ma lui rimase zitto, aprì per un attimo gli occhi e mi sorrise.
Sembrava esausto.
Poco dopo spostò la testa di lato sul cuscino. Una mosca si posò
sulla sua guancia e zampettò fino alla punta del naso; la scacciai
con qualche movimento della mano.
«U Ba» sussurrai. «U Ba». Ma lui non si mosse.
Per non svegliarlo, rimasi seduto qualche minuto. A un certo
punto mi alzai e uscii di soppiatto in cortile. Lì mi aspettava come
ogni giorno il mio lavoro: dar da mangiare alle galline e al maiale,
fare il bucato, strappare le erbacce. Quel giorno dovevo anche
aggiustare la mia vecchia bicicletta, perché nel fango dovevo essere
passato sopra un coccio o su un chiodo.
A volte U Ba è un mistero per me. Perché aveva cominciato
proprio quella mattina a raccontare di sua sorella? Parla così
raramente di lei. Credo che abbia paura di rattristarmi.
Mio zio ha solo una sorella, che di conseguenza è mia madre.
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