La gabbia dorata – Camilla Läckberg

SINTESI DEL LIBRO:
Le prime settimane a Stoccolma furono all’insegna della
solitudine. Due anni dopo la maturità mi ero lasciata alle spalle
Fjällbacka, sia mentalmente che fisicamente, ansiosa di chiudere
per sempre con quel paesino claustrofobico che mi soffocava con i
suoi vicoli pittoreschi e gli sguardi dei suoi abitanti curiosi che non
mi davano requie. In valigia avevo quindicimila corone e il massimo
dei voti in tutte le materie.
Avrei voluto partire anche prima, ma sistemare gli aspetti pratici
aveva richiesto più tempo del previsto. Vendere la casa, fare
pulizia, respingere i fantasmi che mi assediavano.
I ricordi facevano male. Aggirandomi nelle stanze in cui ero
cresciuta me li vedevo davanti tutto il tempo. Sebastian. Mia
madre. E, non ultimo, mio padre. Non avevo più niente a che
spartire con Fjällbacka. Solo pettegolezzi. E morte.
Nessuno era stato al mio fianco, all’epoca, e nemmeno dopo.
Così avevo fatto la valigia ed ero salita sul treno per la capitale
senza guardarmi indietro.
E avevo giurato di non tornarci mai più.
Alla stazione centrale di Stoccolma mi fermai davanti a un
cestino dei rifiuti, aprii il cellulare e buttai via la sim. Da quel
momento in poi le ombre del passato non mi avrebbero più
raggiunto. Nessuno avrebbe potuto minacciarmi e perseguitarmi.
Presi in affitto una camera per i primi mesi, in un appartamento
nel complesso residenziale chiamato Fältöversten che ospita al pian
terreno la brutta galleria commerciale passando davanti alla quale
gli abitanti della zona scuotono la testa e mormorano: «Tutta colpa
dei socialdemocratici, che hanno voluto rovinare per forza il nostro
elegante quartiere di Östermalm.» All’epoca però non ne sapevo
niente. Ero abituata al supermercato Hedemyrs della catena Ica a
Tanumshede e trovavo che Fältöversten fosse molto chic.
Mi innamorai di Stoccolma fin dal primo istante. Dalla finestra al
settimo piano posavo lo sguardo sulle belle facciate tutt’intorno, sui
parchi verdeggianti, sulle macchine costose, e intanto pensavo che
un giorno avrei abitato in uno di quegli imponenti palazzi
ottocenteschi con marito, tre figli perfetti e un cane.
Mio marito sarebbe stato un pittore o uno scrittore, oppure un
musicista. Un uomo completamente diverso da mio padre,
insomma. Sofisticato, intellettuale e mondano. Avrebbe avuto un
buon odore e si sarebbe vestito con gusto. Sarebbe stato un po’
scostante con gli altri ma mai con me, dato che solo io lo avrei
capito.
In quelle prime lunghe notti luminose giravo per le vie di
Stoccolma. Assistevo alle risse nei vicoli all’ora di chiusura dei
locali. Sentivo le grida, i pianti, le risate. I mezzi di emergenza che
passavano a sirene spiegate per andare incontro a pericoli e salvare
vite. Osservavo stupita le prostitute del centro in stivali alti e trucco
anni Ottanta, con la pelle pallida e spugnosa e i buchi sulle braccia,
che cercavano di nascondere sotto camicie o maglie a maniche
lunghe. Chiedevo una sigaretta e provavo a immaginare la loro vita,
la libertà insita nel fatto di aver toccato il fondo senza il rischio di
cadere più in basso. Mi trastullavo con l’idea di mettermi lì anch’io,
giusto per capire cosa comportava, quali erano gli uomini che si
compravano un istante di squallida intimità nella loro Volvo con il
seggiolino per bambini sul sedile posteriore e i pannolini di riserva
e le salviette umidificate nel vano portaoggetti.
Fu in quel periodo che la vita cominciò davvero. Il passato era
come una palla al piede che mi appesantiva, mi disturbava,
m’impediva i movimenti, eppure ogni cellula del mio corpo vibrava
di curiosità. Io contro il mondo intero. Lontana da casa, in una città
sognata per tutta la vita. Non avevo desiderato di andarmene da un
posto, ma di approdare a un altro. Piano piano conquistai la
capitale e Stoccolma infuse in me la speranza di poter dimenticare
e di far cicatrizzare le ferite.
All’inizio di luglio la mia padrona di casa, un’insegnante in
pensione, partì per andare a trovare i nipoti nel Norrland.
«Niente inviti a estranei» disse autoritaria prima di chiudere la
porta.
«Niente inviti a estranei» ripetei io ubbidiente.
Quella sera mi truccai e bevvi i suoi alcolici. Gin e whisky.
Liquore Kirsberry e Amarula. Avevano un sapore orribile, ma non
importava: quella che cercavo era l’ebbrezza, l’ebbrezza che
prometteva oblio e mi pervadeva il corpo riscaldandolo.
Trovato il coraggio a forza di bere, mi infilai un abitino di cotone
e andai a piedi fino a Stureplan. Dopo qualche esitazione mi sedetti
ai tavoli all’aperto di un locale che sembrava carino. Mi passarono
davanti volti noti che prima d’allora avevo visto solo in televisione.
Ridacchianti, ubriachi d’alcol e d’estate.
Verso mezzanotte mi misi in coda davanti al night club di fronte.
L’atmosfera era surriscaldata e non ero certa che mi avrebbero
fatto entrare. Cercai di imitare gli altri, di comportarmi come loro
anche se in seguito capii che dovevano essere turisti, smarriti come
me e solo apparentemente coraggiosi.
Sentii delle risate alle mie spalle. Due ragazzi della mia età
passarono di fianco alla fila e andarono dai buttafuori. Cenni di
saluto e strette di mano. Tutti gli sguardi, invidiosi e affascinati,
erano su di loro. Ore di preparativi e di risatine davanti a bicchieri
di rosé per poi starsene lì a prendere freddo alle gambe, incolonnati
dietro una corda, quando invece poteva essere così semplice. Se
solo si era qualcuno.
A differenza di me quei due ragazzi godevano di visibilità e
rispetto, facevano parte di qualcosa. Erano qualcuno. In quel
preciso istante decisi che lo sarei diventata anch’io.
Fu allora che uno dei due si girò e scrutò curioso la massa di
persone che aveva appena superato. I nostri sguardi si
incrociarono.
Distolsi il mio e cominciai a frugare nella borsa in cerca di una
sigaretta. Non volevo fare brutta figura, la figura di quello che ero
veramente: la ragazza di campagna alla sua prima volta in un night
club della capitale, ebbra di gin e Amarula rubati. Un attimo dopo
era davanti a me. Aveva i capelli rasati e occhi azzurri
dall’espressione gentile. Orecchie un pochino sporgenti. Portava
una camicia beige e dei jeans scuri.
«Come ti chiami?»
«Matilda» risposi.
Il nome che odiavo. Il nome che aveva a che fare con un’altra
vita, un’altra persona. Una che non ero più. Una che mi ero lasciata
alle spalle quando ero salita sul treno per Stoccolma.
«Viktor, ciao. Sei qui da sola?»
Non risposi.
«Vai là avanti, dal buttafuori» disse.
«Non sono sulla lista» mormorai.
«Nemmeno io.»
Un sorriso smagliante. Uscii dalla fila sentendomi addosso le
occhiate gelose delle ragazze semisvestite e dei ragazzi con troppo
gel sui capelli.
«Lei è con me.»
L’armadio davanti alla porta sganciò il cordone e disse:
«Benvenuta.»
Viktor mi prese per mano e mi condusse con sé in mezzo alla
ressa nei locali bui. Ombre, luci sfarfallanti di colori diversi,
rimbombo di bassi, corpi avvinghiati e danzanti. Ci mettemmo
all’estremità di un lungo bancone e Viktor salutò il barman.
«Cosa bevi?» chiese.
«Birra» risposi. Mi sentivo ancora sulla lingua il retrogusto
lasciato dal liquore dolciastro.
«Bene. Mi piacciono le ragazze che bevono birra. Spaccano.»
«Spaccano?»
«Sì. Sono forti, insomma.»
Mi tese una Heineken e sollevò la sua bottiglia in un brindisi. Gli
sorrisi e bevvi un sorso.
«Cosa sogni di fare nella vita, Matilda?»
«Diventare qualcuno» risposi. Non dovetti pensarci neanche un
attimo.
«Sei già qualcuno, no?»
«Qualcun altro.»
«Secondo me non hai niente che non va.»
Viktor fece qualche passo di danza in diagonale dondolando la
testa a tempo di musica.
«E tu cosa sogni?»
«Io? Far musica e basta.»
«Suoni?»
Fui costretta ad avvicinarmi e ad alzare la voce perché potesse
sentire.
«Faccio il dj. Stasera però non lavoro. Domani tocca a me, e
allora sarò lassù.»
Seguii la direzione del suo dito. Su un piccolo palco contro una
parete, dietro a un giradischi, c’era il ragazzo con cui era arrivato.
Si muoveva seguendo il ritmo. Poco dopo ci raggiunse e si presentò
come Axel. Sembrava innocuo e gentile.
«Piacere di conoscerti, Matilda» disse tendendomi la mano.
Riflettei su com’erano diversi dai ragazzi delle mie parti.
Educati. Capaci di tenere in piedi una conversazione. Axel ordinò
un drink e sparì. Io e Viktor brindammo di nuovo. La mia birra era
quasi finita.
«Prima di tornare qui, domani, ci vediamo con qualche amico a
casa nostra. Ti va di venire?»
«Può darsi» risposi guardandolo pensosa. «Perché hai voluto che
entrassi con te?»
Bevvi con ostentazione l’ultimo sorso di birra sperando che ne
ordinasse un’altra, cosa che avvenne puntualmente. Una per sé e
una per me. Poi rispose alla domanda con gli occhi azzurri che
luccicavano al buio.
«Perché sei carina. E mi sembravi sola. Te ne sei pentita?»
«No, per niente.»
Lui pescò dalla tasca posteriore dei jeans un pacchetto di
Marlboro e me ne offrì una. Non avevo niente in contrario a
scroccargliela. Così le mie sarebbero durate di più. Delle
quindicimila corone ricavate dalla vendita della casa, saldati i
prestiti, non restava molto.
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