La custode del miele e delle api – Cristina Caboni

SINTESI DEL LIBRO:
Era l’alba, il momento che preferiva. Per i colori, il silenzio e il
profumo. E per la promessa insita in quel nuovo giorno appena
cominciato.
E di albe Angelica Senes ne aveva viste molte. Tutte identiche,
ma allo stesso tempo molto diverse. Quelle spagnole, ad esempio,
incendiavano il cielo terso e sapevano di lacrime, ma anche di libertà
e di infinito. Quelle nordiche, invece, erano opalescenti e gelide,
razionali ed efficienti. Più a sud, in Grecia, l’aurora si presentava
all’improvviso, sfavillante come un fuoco d’artificio.
E poi c’era l’alba che apparteneva ai suoi ricordi. Era fatta di
cristallo, e in quel blu senza confini si poteva vedere riflessa la
propria anima.
Scese dal camper a passo svelto, negli occhi ciò che restava di
una notte senza riposo, tra le mani una piccola leva di metallo. Si
adattava perfettamente al suo palmo, ne conosceva ogni
smussatura. Era liscia e sottile sul finale, ma talmente robusta da
sollevare un melario colmo di miele. Era anche il prolungamento del
suo braccio.
Nei momenti in cui si sentiva più incline a una sorta di indulgenza
verso sé stessa, ad Angelica piaceva pensare che quell’oggetto così
particolare la identificasse. L’aveva costruito per lei Miguel Lopez, il
fattore dell’azienda apistica spagnola dove aveva vissuto i primi anni
lontano da casa, in una tenuta dove si coltivava rosmarino dalle
foglie d’argento, il cielo era blu e le colline di terra rossa. A quei
tempi Angelica non aveva molta voglia di parlare, cosa che l’anziano
apicoltore aveva molto apprezzato. Questo era il motivo per cui
aveva cominciato a portarsela dietro quando visitava gli apiari o
quando si aggirava a piedi in cerca di nuove postazioni.
Miguel aveva capito subito che lei parlava il linguaggio delle api.
Una cosa rara davvero. In tutta la sua vita non aveva mai visto
nessuno come Angelica Senes. In quella ragazza c’era qualcosa di
speciale. Di antico.
L’aveva osservata di nascosto e aveva scoperto che non solo
sapeva parlare con le api, ma che cantava. Cantava per loro. Mentre
la voce limpida della ragazza si innalzava sul campo di fiori azzurri,
Miguel aveva sentito il suo vecchio cuore battere più rapido.
Un’emozione profonda gli aveva richiamato alla memoria cose sopite
dal tempo e dagli anni. E, dal momento che non le poteva donare il
suo sapere, poiché in fatto di api Angelica ne sapeva più di chiunque
altro, aveva deciso di costruirle qualcosa di speciale, che non
possedeva: una leva.
La sua forza.
L’aveva ricavata da un ferro di cavallo modellandola con
pazienza, un colpo alla volta. Apparentemente delicata, era leggera,
forgiata su misura per una piccola mano. Una mano di donna.
Da allora Angelica non se n’era mai separata. E anche in quel
momento, mentre raggiungeva un altro campo di rosmarino, la
portava con sé. Non le sarebbe servito altro per controllare l’apiario.
La tenuta si estendeva a perdita d’occhio, il mare verde e blu la
circondava. Le foglie sottili delle pianticelle, incrostate di rugiada,
riflettevano la luce ancora incerta del mattino, mentre la brezza
leggera sollevava il loro profumo pungente.
Rosmarino. Dal nettare dei suoi fiori si otteneva un miele chiaro,
quasi bianco, che cristallizzava in fretta e delicatamente. Aromatico,
dolce e cremoso. Il suo preferito.
L’umidità si sollevava dal campo, una nuvola opalescente che
aveva appena cominciato a sfilacciarsi. Un grosso mastino color
cioccolato era rimasto ad aspettarla sul vecchio camper che da anni
era la sua casa. Gli occhi vigili e scuri seguivano i movimenti della
padrona. Quando lei gli fece un cenno con la mano, l’enorme bestia
le corse incontro.
«Vieni, Lorenzo, è ora di andare», gli disse accarezzandogli la
testa.
Avrebbe cominciato da lì, decise scendendo lungo il sentiero. Di
tanto in tanto si guardava intorno registrando ogni dettaglio e
soprattutto annusando, perché era nell’aria che si nascondevano le
insidie maggiori. Finché non avesse visto con i propri occhi gli
alveari, non avrebbe saputo dire cosa affliggeva le api di monsieur
François Dupont, l’uomo che l’aveva ingaggiata una settimana
prima.
Era quello il suo mestiere: apicoltrice itinerante.
Conosceva le api, il loro ronzio era la sua musica preferita, un
linguaggio che comprendeva intimamente, fatto di profumi, di suoni,
di consapevolezza. Risolveva i problemi che facevano soffrire gli
apiari e poi ripartiva.
Era una custode. L’ultima custode delle api. Depositaria di un’arte
antica che si tramandava solo da donna a donna.
All’improvviso si trovò davanti al corridoio di volo. I suoi pensieri
si dissolsero, come le accadeva ogni volta che entrava in quel
mondo, il suo mondo. Tutto il resto semplicemente scomparve. Le
api saettavano e sparivano velocissime accompagnate dal ronzio
della raccolta. Le seguì con lo sguardo e vide gli alveari. Erano
disposti lungo il confine del campo, al riparo dai venti. Bene,
finalmente una decisione che approvava! Niente poteva danneggiare
un alveare quanto il vento impetuoso. E là, in quella zona della
Francia, il mistral poteva arrivare a sradicare un albero.
Si avvicinò scrutando ogni dettaglio. Quando il suo sguardo tornò
sulle casse azzurre allineate e perfettamente identiche, si accigliò.
«Nessun segno, nemmeno un piccolo disegno in tutto l’apiario. Ci
dev’essere una deriva pazzesca», brontolò. Prese meticolosamente
nota di tutto. Poi scosse la testa. «Come dovrebbero orientarsi
queste povere api, secondo Dupont? Con il numero civico delle
arnie?» chiese a Lorenzo che le trotterellava dietro. «Basta anche un
piccolo segno, mica deve dipingerci sopra la cappella Sistina!» disse
scuotendo la testa.
Si era fatta largo tra i rami e aveva raggiunto la parte posteriore
degli alveari. Con la coda dell’occhio vide che il suo cane si era
accucciato sotto un cespuglio e sorrise. Era sempre così, le restava
accanto fino al momento in cui si accingeva ad aprire le casse, poi
schizzava al riparo.
«Bel cane apicoltore che sei, dovresti vergognarti», lo rimproverò
con un sorriso.
Dopo aver sollevato l’arnia, infilò la leva tra la cassa di legno e il
coprifavo. Con un gesto fluido del polso alzò il coperchio e attese
che le api uscissero. Le passeggiarono un po’ tra le dita e lei le
osservò con attenzione. Erano lucide e grassocce. Erano bellissime
nelle loro livree giallo oro e ocra. Con entrambe le mani, sempre
tenendo saldamente la leva, scoperchiò completamente la cassa.
Fu allora che cominciò a cantare. Le parole modulate e limpide di
quell’antica nenia si levarono sul campo. Chiuse gli occhi mentre le
note fluivano dentro di lei e poi fuori dalle sue labbra. Ne sentiva il
ritmo e la dolcezza sulla lingua. Percepiva il potere diramarsi dal
cuore verso la punta delle dita protese e oltre. Cantò ancora e,
quando le giunse in risposta il ronzio allegro delle api, le parve di
volare con loro.
La prima cosa che sentì, mentre il cuore le batteva forte, fu il
calore. Proveniva dall’interno dell’arnia come una corrente d’aria,
piacevole e rassicurante sulla pelle. Con estrema attenzione poggiò
il coperchio di lato, il labbro inferiore stretto tra i denti, concentrata e
silenziosa. Un attimo dopo lasciò andare il respiro e ricominciò a
cantare.
Il nido sembrava in ordine, intensamente popolato dalle api che,
confuse, erano atterrate in massa nella prima arnia della fila a causa
della deriva, e ora si accalcavano l’una sull’altra incuriosite
dall’intrusione. I ponti creati dai telai erano rigogliosi. Il profumo della
cera perlacea, gonfia di miele, si spandeva nell’aria, insieme a quello
del fumo utilizzato da chi aveva visitato le api in precedenza, ormai
intriso nel legno.
Con delicatezza sollevò i primi telai, valutando le scorte di cui
disponevano, poi raggiunse il nido. Il telaio che aveva scelto era
pesante, le api nutrici passeggiavano sulle esuvie opercolate – le
cellette che componevano il favo – accogliendo le nasciture. Le
giovani api, dopo aver aperto il sottile strato di cera che sigillava le
celle, simili a culle, uscivano lentamente, ricoperte da una delicata
lanugine. Subito le nutrici le ricevevano, accarezzandole con le
antenne e le zampe, mentre le ali si dispiegavano per la prima volta.
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