Into the Unknown – Alanis Khan

SINTESI DEL LIBRO:
Il colle di Città Alta era avvolto da una coltre di nebbia mattutina
che la circondava come una seconda cinta muraria, un surrogato
atmosferico delle sue antiche mura venete. I più alti pennacchi dei
palazzi e delle chiese sembravano galleggiare nel vuoto.
Spostavo il peso del corpo da un piede all'altro e tra uno sbadiglio
e quello successivo trovavo il tempo di tormentare con la lingua il
mio piercing laterale al labbro, un gesto che manifestava spesso il
mio nervosismo.
Né il fresco di quella mattina di inizio ottobre, né il caos del traffico
cittadino riuscivano a farmi svegliare bene. Fissavo a testa bassa le
mie sneakers nere e mi stringevo nelle spalle per far fronte all'aria
fredda che spirava. Un solo pensiero mi scosse più di tutto: era il mio
primo giorno di università in Città Alta e aver salutato zia Sibilla, non
sapevo perché, mi era suonato come un addio pur sapendo che
sarei tornato alla sera. Era da stupidi pensarlo: ero lontano solo un
chilometro da casa e dopo l'autobus la funicolare saliva di poco, a
circa ottocento metri dall'università. Avrei rivisto la zia a cena.
Alzai la testa verso la doppia colonna di auto che si era formata al
semaforo, di fronte al teatro storico.
Un motociclista con la tuta nera di pelle e il casco dello stesso
colore, fermo alla linea di arresto, si voltò verso di me. Incontrai il
mio riflesso assonnato nella sua visiera a specchio, la tracolla
appesa alla mia spalla sembrava più grossa di me.
Avevo vent'anni eppure sembravo molto più giovane, forse a
causa del lungo ciuffo nero che mi ricadeva sull'occhio destro, o il
fatto che portassi spesso abiti larghi che non servivano a
nascondere la mia magrezza.
Mangiavo come un porco ma non riuscivo a prendere un chilo di
più. Ironizzavo sul fatto che, almeno, la mia nutrizione mi avrebbe
portato a raggiungere il metro e settantadue di altezza, particolare
che mi ricordava che alcuni miei coetanei fossero più alti di me.
Il flusso del traffico riprese il movimento e con esso si mosse
anche il motociclista, che rubò il mio riflesso con la sua visiera,
lasciando a me solo la fuggente immagine dei miei occhi ambrati
come ultima visione.
Salii sull'autobus che si arrestò di fronte a me, pochi secondi
dopo. Restai in piedi, i sedili erano già presi d'assalto a quell'ora
della mattina. Poco male: c'erano solo tre fermate.
Come avevo previsto, alla stazione della funicolare c'erano tanti
giovani diretti sul colle, ma non proprio tutti giovanissimi: qualcuno
doveva essere fuori corso o, forse, era un docente.
– Orion! – sentii chiamare non appena scesi dal bus. Salutai la
mia amica Jennifer con un cenno della mano mentre mi veniva
incontro. Con lei c'era Paolo, un amico per il quale provavo una
decisa invidia per il suo fisico, tutto il contrario del mio: un metro e
ottanta di altezza, spallato quasi come un giocatore di rugby e
muscoloso da paura. Era innamorato di Jennifer ma non
comprendevo il suo silenzio, pur avendolo spronato a dichiararsi.
Aveva paura di rovinare l'amicizia, diceva.
A volte era convinto che a lei piacessi io...
In che lingua avrei dovuto far capire a entrambi che tentare con
me era una perdita di tempo?
Ero già innamorato di qualcuno, peccato che non avrei mai potuto
avere l'amore di quell'uomo.
– Ehilà, ragazzi – salutai quando li raggiunsi.
– Dormito male? – domandò Paolo.
Soliti incubi, pensai senza esprimermi a parole.
Feci un'alzata di spalle e con un sorriso, forse troppo tirato per
sembrare reale, replicai:
– La sveglia è il male, non il dormire.
Jennifer mi scrutò sospettosa, poi si voltò verso la fila davanti a
noi ed esclamò entusiasta:
– Oh, la funicolare! Sei arrivato appena in tempo, Orion, se no
dovevamo salire separati.
Che dramma! pensai ironico, dato che la carrozza successiva
sarebbe scesa da lì a dieci minuti. Forse sarebbe stata meno
affollata, il che non mi sarebbe dispiaciuto, ma quel giorno preferivo
anch'io stare in compagnia.
Iniziava un nuovo capitolo della mia vita e non mi sentivo ancora
pronto a muovermi da solo in quel mondo a me sconosciuto, almeno
per la settimana in corso.
Mi guardai attorno spaesato. Non era la prima volta che visitavo
Bergamo Alta, eppure il paesaggio aveva qualcosa di diverso o lo
guardavo con occhi più adulti. La particolarità di Città Alta era lo stile
antico, risalente al periodo medievale-barocco, rimasto intoccato.
Quando bigiavo lassù le mattinate alle superiori, non avevo mai
osservato in modo così attento le meraviglie del borgo.
L'emozione mi fece contorcere le viscere quando il Monastero di
Sant'Agostino si materializzò sul nostro cammino e il mio pensiero
fu: “Ci siamo!”. Una nuova avventura che, speravo, avrebbe
allontanato quegli incubi dalla mia mente, impegnandola sui libri.
La facoltà di scienze della comunicazione sorgeva all'interno del
complesso insieme a quella di economia e commercio, entrambe
affacciate sulla piazza principale.
– Questo posto è bellissimo – disse Jennifer guardandosi attorno
mentre attraversavamo il chiostro con il colonnato in pietra.
– A me i monasteri mettono ansia – mormorò Paolo vicino a me.
Mi accorsi che si guardava attorno con gli occhi sgranati e lucidi,
come se avesse paura. Ridacchiai e gli diedi una pacca amichevole
sulla spalla:
– Comincia a guardare meno horror – suggerii.
– In pausa pranzo andiamo alla birreria a metà della via
principale? Mi è parsa carina.
– Ti fai di birra a mezzogiorno? Canterai alla lezione del
pomeriggio – scherzò Paolo alle parole di Jennifer, che lo tramortì
con lo sguardo.
– Non fatevi riconoscere già il primo giorno – li ammonii in modo
scherzoso, già consapevole che sarebbe bastato meno di una
settimana perché Paolo e Jennifer diventassero popolari in tutto
l'ateneo per il loro perenne rapporto di odio e amore.
Mi sedetti tra di loro in aula, nel mezzo della furia di due titani
scatenati, il fuoco e l'acqua. Jennifer raccolse i capelli rossi in una
coda e mise gli occhiali da vista, appuntando le lezioni che si
sarebbero svolte nel primo trimestre; Paolo ascoltava ciondolando la
penna tra le dita.
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