Il controllo totale- David Baldacci

SINTESI DEL LIBRO:
L'appartamento era piccolo e squallido. Eppure, nonostante un
sentore di muffa e di abbandono, era pulito e rivelava attenzione
nella scelta e nella disposizione degli oggetti. Il tavolo e le sedie di
mogano erano antichi, così come alcuni quadri. Una libreria di acero
occupava per intero una parete del piccolo salotto, massiccia e
sproporzionata. C'erano molti libri, sistemati con cura. Per la
maggior parte trattavano argomenti di natura finanziaria, soprattutto
politica monetaria internazionale.
Erano le quattro del mattino. Il salotto era illuminato solo da una
piantana, accanto al divano stinto sul quale era abbandonato di
traverso un uomo alto, che teneva gli occhi chiusi come se dormisse.
Portava bretelle verdi su una camicia elegante, inamidata, col
colletto aperto, ai lati del quale pendevano i lembi di un papillon. La
calvizie appariva incongrua su quella faccia ornata da una folta
barba grigio acciaio.
Quando l'uomo sollevò le palpebre, tutte le altre caratteristiche
fisiche parvero passare in secondo piano. I suoi occhi scuri e
penetranti percorsero la stanza, continuando a ingrandirsi fin quasi a
occupare l'intera cavità orbitale. A quello sguardo di orrore seguì uno
spasimo che lo aggredì all'improvviso, inducendolo a comprimersi un
fianco. Ma ormai il dolore era dappertutto, sempre più feroce. La
faccia dell'uomo si contrasse, mentre il suo respiro si faceva
affannoso.
La mano destra corse all'apparecchio che portava alla cintura.
Sembrava un walkman, ma era una pompa CADD collegata a un
catetere dissimulato sotto la camicia e fissato al torace. Il dito cercò
e trovò il pulsante, e la pompa liberò una forte dose di analgesico, in
aggiunta a quelle che dispensava automaticamente, a intervalli
regolari, nel corso della giornata. Appena il farmaco entrò in circolo,
il dolore cominciò ad attenuarsi. Ma lui sapeva che sarebbe tornato.
Tornava sempre.
Si distese di nuovo, sfinito, con la camicia macchiata di sudore.
Grazie a Dio c'era quella pompa. Sebbene l'uomo avesse un'alta
soglia del dolore, e con la forza della ragione fosse sempre riuscito a
superare qualsiasi disagio, la belva che lo divorava dall'interno del
suo corpo lo stava conducendo a livelli di sofferenza sempre più
elevati. Si chiese, di nuovo a occhi chiusi, che cosa doveva
aspettarsi prima, se la morte o la resa dei farmaci. Si augurò che
fosse la morte.
Barcollando andò in bagno e si guardò nello specchio. Fu allora
che Arthur Lieberman cominciò a ridere. Una risata fragorosa e
nevrotica che seguitava a crescere, minacciando di esplodere
attraverso le pareti sottili della casa, e che si concluse con un
accesso incontrollabile di singhiozzi e conati. Qualche minuto più
tardi, dopo essersi cambiato la camicia sporca di vomito, Lieberman
cercò di riannodarsi la cravatta davanti allo specchio. Avrebbe
dovuto aspettarsi quei violenti, improvvisi sbalzi di umore.
Gliel'avevano detto.
Aveva sempre avuto cura della propria persona, facendo un po' di
moto con regolarità. Non aveva mai fumato né bevuto, e aveva
sempre seguito un'alimentazione regolare. Ora, con i suoi giovanili
sessantadue anni, sapeva che non sarebbe arrivato a sessantatré.
Se l'era sentito confermare da tanti medici, e ormai anche la sua
prepotente voglia di vivere aveva ceduto. Ma non se ne sarebbe
andato in silenzio. Aveva ancora una carta da giocare. Sorrise,
perché a un tratto si era reso conto che la morte incombente gli
aveva concesso una facilità d'azione che la vita gli aveva negato.
Sarebbe stata una sorpresa veder porre sulla fine di una carriera
insigne come la sua un marchio ignobile. Ma l'ondata di stupore che
avrebbe accompagnato la sua uscita dal mondo era un compenso
sufficiente. Che cosa gliene importava? Entrò nella piccola camera
da letto e si fermò a guardare le fotografie sullo scrittoio. Gli vennero
le lacrime agli occhi e uscì subito.
Alle cinque e mezzo precise, Lieberman prese l'ascensore. Una
Crown Victoria, con la targa bianca governativa che scintillava nella
pallida luce della strada, lo aspettava accanto al marciapiede, il
motore al minimo. L'autista scese e tenne aperta la portiera per farlo
salire. Si era portato la mano al berretto per salutare il suo illustre
passeggero, ma, come sempre, non aveva ricevuto alcun cenno di
risposta. Poco dopo, la macchina spariva in fondo alla strada.
Pressappoco nel momento in cui l'automobile di Lieberman saliva
la rampa della Beltway, all'aeroporto internazionale di Dulles, il jet
Mariner L500 usciva dall'hangar e si preparava al volo diretto per
Los Angeles. Completati i controlli di manutenzione, il velivolo si
stava rifornendo di carburante. Era un lavoro che la Western Airlines
aveva dato in subappalto. L'autocisterna, tozza e grossa, era ferma
sotto l'ala destra. Nei jet L500 i serbatoi erano collocati nelle ali e
nella fusoliera. Il pannello di accesso al serbatoio era stato
abbassato e il tubo flessibile si snodava verso l'alto, fissato alla
valvola che da sola riforniva tutti e tre i serbatoi attraverso un
sistema di collettori. Un operaio, con grossi guanti e una tuta sporca,
sorvegliava il tubo mentre la miscela, altamente combustibile, fluiva
nei serbatoi. L'uomo osservò attentamente il fervore di attività che
andava crescendo attorno all'aereo: il carico della posta, i carrelli per
i bagagli che correvano serpeggiando verso il terminal. Assicuratosi
che nessuno lo stesse notando, con la mano guantata spruzzò sulla
parte esposta del serbatoio, attorno alla valvola d'immissione, una
sostanza da un contenitore di plastica. Esaminando da vicino, si
sarebbe visto un velo leggero sulla superficie metallica, ma
certamente nessuno si sarebbe avvicinato per guardare. Neanche il
secondo pilota, nel suo giro di controllo prima del volo, avrebbe
scoperto quella piccola sorpresa in agguato dentro l'enorme
apparecchio.
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