Duecentosei ossa: I romanzi della serie tv Bones – Kathy Reichs

SINTESI DEL LIBRO:
Freddo.
Torpore.
Confusione.
Aprii gli occhi.
Buio. Più buio di un inverno artico.
Sono morta?
Obbedendo a un qualche stimolo del sistema limbico, inspirai a
fondo.
Il mio cervello registrò degli odori.
Muffa. Terra umida. Qualcosa di organico che evocava il trascorrere
del tempo.
Ero all’inferno?In una tomba?
Mi misi in ascolto.
Silenzio. Impenetrabile.
No... dei rumori c’erano: il sibilo dell’aria attraverso le mie narici, il
sangue che martellava nelle orecchie.
I cadaveri non respirano. I cuori dei morti non battono.
Sopraggiunsero altre sensazioni: la durezza della terra sotto di me e
un bruciore sul lato destro del volto.
Sollevai la testa.
Sentii la bile inondarmi la bocca.
Spostai il bacino per alleviare la pressione sul collo piegato.
Un dolore lancinante esplose nella mia gamba sinistra.
Un gemito ruppe il silenzio.
Istintivamente, il mio corpo si raggomitolò in posizione fetale. Il
martellare si fece più forte.
Restai così, ripiegata su me stessa, ad ascoltare il ritmo della mia
paura.
Poi capii: il lamento era uscito dalla mia stessa gola.
Sento dolore. Reagisco. Sono viva.
Ma dove sono?
Sputando bile, cercai di allungare la mano, ma sentii che qualcosa la
bloccava.
Avevo i polsi legati.
Provai a sollevare un ginocchio al petto: i piedi salirono, entrambi, i
polsi furono trascinati verso il basso.
Tentai una seconda volta, con più forza: i neuroni si eccitarono
nuovamente lungo la gamba.
Soffocando un altro grido di dolore, mi sforzai di imporre un po’
d’ordine nel caos
della mia mente.
Ero stata legata, le mani ai piedi, e abbandonata. Dove? Quando?
Da chi?
Perché?
Scandagliai invano la memoria alla ricerca di fatti recenti. Ma il vuoto
mi portava troppo lontano.
Ricordavo un picnic con mia figlia Katy, ma era d’estate: la
temperatura, ora, suggeriva il gelo invernale.
Tristezza. Un ultimo addio a Andrew Ryan. Era stato in ottobre.
L’avevo più rivisto?
Un maglione rosso a Natale. Natale di che anno? Non ne avevo
idea.
Disorientata, vagai con la memoria in cerca di un dettaglio recente:
tutto era sfocato.
Vaghe sensazioni irrazionali apparvero e poi svanirono. Una figura
che emergeva dall’ombra. Uomo o donna? Rabbia. Grida. Per che
cosa? Contro chi?
Neve che si scioglie. Schegge di luce su vetri rotti. Le fauci oscure di
una porta socchiusa.
I vasi dilatati pulsavano contro le pareti del mio cranio. Per quanto mi
sforzassi, non un ricordo affiorava dalla mia mente in stato di
semincoscienza.
Ero stata drogata? Colpita alla testa?
La gamba era messa davvero così male? Sarei riuscita a
camminare? O almeno a strisciare?
Le mani erano intorpidite, le dita inutili. Con uno strattone cercai di
divaricare i polsi: nessun segno di cedimento delle corde.
Lacrime di frustrazione mi bruciarono l’interno delle palpebre.
Vietato piangere!
Serrando la mascella, ruotai sulla schiena, sollevai i piedi e divaricai
di scatto le caviglie. Un bruciore insopportabile divampò lungo l’arto
inferiore sinistro.
Poi il nulla.
Mi risvegliai. Mesi dopo? Ore? Impossibile dirlo. Avevo la bocca più
secca, le labbra più aride. Il dolore alla gamba si era trasformato in
un indolenzimento sordo.
Nemmeno lasciare alle pupille il tempo di abituarsi all’oscurità servì a
qualcosa.
Come potevano adattarsi? Non c’era un filo di luce in quel nero
denso.
Le stesse domande si ripresentarono alla mia mente. Dove?
Perché? Chi?
Evidentemente ero stata sequestrata. Ero vittima di un gioco
perverso o di un preciso disegno di morte?
Quel pensiero innescò un primo ricordo distinto: la foto di un
‘autopsia, un cadavere carbonizzato, le mascelle spalancate in un
ultimo grido d’agonia.
Poi un susseguirsi convulso di immagini. Due obitori. Due sale
autopsia. Le targhe sulla porta di due laboratori, TEMPERANCE
BRENNAN, ANTROPOLOGA FORENSE. TEMPERANCE
BRENNAN, ANTHROPOLOGUE JUDICIAIRE.
Ero a Charlotte? Davvero troppo freddo per il North Carolina, anche
in inverno.
Ma era inverno? Mi trovavo nel Quebéc?
Ero stata aggredita in casa? Per strada? In macchina? Davanti
all’Édifice Wilfrid-Derome? Al laboratorio?
Ero stata scelta per caso dal mio aguzzino? 0 qualcuno mi aveva
presa di mira a causa del mio mestiere? Poteva essere la vendetta
di un ex condannato o di un parente con la fissazione del complotto.
A quale caso avevo lavorato ultimamente?
Dio, quel luogo era così freddo, e buio, e silenzioso.
E perché quell’odore, dì una familiarità allarmante?
Cercai nuovamente dì divincolare le mani e i piedi. Invano. Non
riuscivo nemmeno a mettermi a sedere.
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