Collezione privata – Eveline Durand

SINTESI DEL LIBRO:
Nebbia, solo nebbia.
Prima dell’arrivo dei gelidi inverni, prima ancora della tramontana
che scuoteva il Newshire, la bruma lattiginosa era l’unica cosa che
abbracciava quel paesaggio aspro e inospitale.
Per settimane rasentava il profilo della brughiera e circondava il
castello di Enoch, a sud del raccordo palpitante che conduceva a
Wenita.
Amavo la mia terra natale.
Romery, che era quasi un fratello per me, non era mai stato in
grado di comprendere il fascino selvaggio che mi trasmetteva.
Era un richiamo, la voce di una madre disperata e sconosciuta.
Il mio migliore amico e compagno d’armi aveva cercato varie volte
di dissuadermi dall’insediamento stabile nel mio rifugio, anche se
rifugio sembrerebbe una parola troppo riduttiva per quell’enorme
ammasso di pietre che squarciava i cieli.
Le terre di Enoch erano sinonimo di pace, di casa.
Enoch ero io, nobile uomo di scienza: Julian West Johanson.
Proprio verso il mio castello, il veicolo trascinava il suo prezioso
carico, nonostante l’aspetto usurato e il brontolio sospetto del
motore.
Lo vidi raggiungere il cancello principale, per poi superarlo ed
entrare nel giardino.
Per la precisione, quello era un vero e proprio parco, un
insediamento di alberi e vegetazione al centro della mia proprietà.
A prima vista, il maniero di Enoch poteva intimorire. Le vette della
fortezza ricalcavano lo stile imperiale e gridavano ostentazione: un
monito per qualsiasi straccione che si fosse avventurato in cerca di
un pasto caldo. Chi mi conosceva bene sapeva che mal tolleravo la
vicinanza di certi parassiti.
Le sbarre di bronzo si mossero in un sinistro benvenuto e l’uomo
alla guida adeguò la marcia di quel rottame su cingoli per farlo
avanzare sul terreno umido.
Mi aveva intravisto sulla soglia in trepidante attesa e sicuramente
non vedeva l'ora di incassare ciò che gli spettava, ma il suo enorme
e tozzo mezzo di trasporto non poteva andare più veloce di così.
Io dal mio canto non ero mai stato un tipo paziente.
Quando vidi da vicino il metallo corroso ricoperto di stracci, mi
lasciai andare a un’imprecazione che non si addiceva alla mia
facciata da gentiluomo. Stringendo i pugni, avanzai in direzione del
vettore col pensiero che a passo d’uomo sarei stato più veloce io del
barroccio che conteneva la mia inestimabile merce.
«Sei in scandaloso ritardo, trasportatore. Voglio vedere le
condizioni delle celle, subito!»
L’uomo col cappello più polveroso che avessi mai visto, continuò a
masticare la sua pagliuzza consunta e si grattò il mento ispido, poi
sporse la sua mole in avanti e scivolò giù dal sedile.
Le mie narici si dilatarono sia per la rabbia, sia per l’odore di
sozzura del gigante che mi precedeva.
Sotto gli strati unticci che avvolgevano il retro del veicolo scattarono
due maniglie cromate e davanti ai miei occhi si aprì una cella
frigorifera linda e scintillante.
Al suo interno due blocchi di un gelido azzurro sembrarono quasi
palpitare.
Sorpreso della tecnologia di quel mezzo antidiluviano, estrassi dal
taschino della giacca una mazzetta di banconote, mentre l’uomo dal
ghigno molesto fissava il mio guanto con bramosia.
Potevo immaginare che nella sua triste vita non avesse avuto molte
occasioni di vedere un simile sfarzo. L’accessorio che tutti eravamo
costretti a indossare, e che stabiliva in modo inequivocabile l’entità
dei nostri averi, nel mio caso era foderato di Osmio, brillante e
limpido.
Quello che ricopriva la sua lurida mano destra, come sospettavo,
era color carbone.
«Controllate pure, dottore. I vostri mostri sono in ottimo stato»
gracchiò la sua voce strafottente.
Sbuffai, anche se in modo contenuto, prima di dare un’occhiata più
approfondita. In effetti, i due esemplari che avevo comprato a Purple
Square sembravano in ottime condizioni.
Dopo il mio cenno di assenso, l’uomo allargò la bocca sdentata in
un sorriso così ampio che la pagliuzza gli cadde dalle labbra. Ancora
una volta soffiai via l’aria con calma, contento di aver evitato uno
scontro con quell’orso di un trasportatore.
Il vecchio Isaak, nel frattempo, era scivolato alle mie spalle nel suo
solito modo benevolo ma inquietante.
«Aiutalo a scaricare i levopodi» ordinai al maggiordomo,
spostandomi di lato per evitare di avvicinarmi all'uomo dai vestiti
logori. Sudato, senza giacca e con quella guaina che gli avvolgeva lo
stomaco prominente, mi provocava la nausea.
«Isaak? Hai intenzione di startene lì senza fare niente?»
L’allampanato servitore inarcò un sopracciglio in modo molto
eloquente. Non solo non sapeva cosa fosse un levopode, ma si
riteneva certamente non idoneo a quel lavoro di fatica.
Come suo padrone mi mossi a osservarlo meglio, notando i capelli
grigi e impomatati e le spalle ossute che parevano bucare la giacca
di velluto.
Quanti anni aveva di preciso il membro più fedele della servitù?
Meno di settanta, da quel che ne sapevo.
Ricordavo che, da quando ero venuto al mondo in quella stessa
casa, era sempre stato lì, come un elemento di arredo provvisto di
polmoni.
«D’accordo: chiama Gordon per scaricare, poi raggiungimi in
laboratorio» dichiarai con aria quasi sconfitta. «Devo insegnarti
qualcosa sulle nuove specie da importazione.»
Nonostante gli anni di servizio alle mie dipendenze, Isaak non si
era mai interessato seriamente alla mia passione. Come se fosse
stato un bambino bisognoso d’istruzione, mi ostinavo a indottrinarlo
alle meraviglie della criogenia.
«Come ben sai, la quiescenza è lo stato di sospensione reversibile
dei processi vitali di un organismo vivente.»
Lui, come sempre, fingeva di ascoltarmi. Io invece mi dilettavo a
sventagliare la mia conoscenza al servile carpanese
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che mi aveva
visto crescere.
Dopo aver congedato con sollievo il rude trasportatore, feci spazio
al nerboruto e taciturno Gordy che, grazie a un carrello a spinta
idraulica, iniziò a trascinare le due inestimabili celle fino alla rampa
dell’ingresso secondario.
Osservare le movenze di quel giovane gigante alle mie dipendenze
aveva sempre un certo fascino. Malgrado la stazza spaventosa, le
spalle sproporzionate e i tratti tutt’altro che sottili, il tuttofare
sembrava adempiere ai suoi doveri con un’agilità disarmante.
La modesta camicia di lino si tese sotto l’ennesimo sollevamento,
mentre il suo viso schiacciato si deformava per lo sforzo. Non era un
mistero che la sua prestanza fisica fosse in parte dovuta al braccio
biomeccanico che io stesso gli avevo impiantato, anni prima.
Isaak seguì con lo sguardo le ultime manovre di Gordy, ormai
all’interno dell’andito che portava al mio piccolo covo.
«Sapevi che gli studi sull'animazione sospesa sono arrivati a questi
risultati grazie ai rettili?» continuai, accendendo le luci del laboratorio
che mio padre aveva tentato inutilmente di smantellare.
Ormai il mio severo genitore giaceva diversi metri sotto terra, quindi
a soli trentaquattro anni ero in possesso di ingenti somme e terreni
sconfinati, ma soprattutto ero libero di seguire i miei interessi.
Collezionare.
Studiare.
Sperimentare.
«Dottore, apprezzo l’impegno che dimostrate nel porre rimedio alla
mia ignoranza» mi fece notare il mio servo più anziano. «Credo,
ahimè, di essere troppo vecchio per queste cose. Noto però che il
vostro umore è migliorato.»
Sapevo bene il significato dello sguardo che in quel momento Isaak
mi stava offrendo: quella risatina di sbieco voleva dire che
apprezzava la mia partecipazione e che aveva intravisto una luce
appagante nei miei occhi.
Proprio come avrebbe fatto un genitore.
Come al solito scelsi di ignorare l'affetto del maggiordomo,
ricordando a me stesso che era appunto solo quello: un
maggiordomo.
Non potevo permettermi di considerarlo parte di qualcosa che non
fosse la servitù. In sostanza ero solo al mondo, ma con i miei mezzi
e la mia conoscenza avrei potuto procurarmi qualsiasi cosa.
Mi sbarazzai del cappotto, dell’ingombrante cintura, e indossai il
mio camice color avorio, ansioso di ammirare l’anatomia dei levopodi
che avevo comprato all’asta.
Braccia bluastre, squame da rettile e piedi palmati: bellissimi.
Attraverso il liquido refrigerante mi soffermai sulla maestosità dei
corpi e sui musi dai denti affilati e minacciosi.
Le celle che racchiudevano il loro freddo sonno erano di fattezza
piuttosto comune: grossi parallelepipedi dallo scheletro cromato, la
cui unica funzione era mantenere in vita quelle due meraviglie della
natura.
«Hai già visto come si fa. Avvia tu il motore» ordinai al pallido Isaak
che avrebbe voluto defilarsi in sordina. L’uomo trattenne un sospiro e
si diresse dall’altra parte del vasto laboratorio; molto tempo prima
aveva ospitato la sala ricreativa della mia tediosa famiglia. Le
finestre erano state murate e al loro posto spiccavano i tre pannelli
ovali che celavano l’oscura tecnologia utile a quel piccolo miracolo.
Quando Isaak sollevò la leva, le luci tremarono sensibilmente. Il
rombo del motore rotativo precedette il debole fischio dei pistoni e,
attraverso i tubi che strisciavano lungo le pareti, la forza vapore
divenne pura energia.
Fremendo d’impazienza, calai gli occhiali protettivi a doppia lente e
afferrai la chiave meccanica per collegare le celle.
Dopo aver assicurato i cavi e stretto il bullone principale intorno al
tubo di alimentazione, mi preparai a dare inizio alla fase più delicata:
il risveglio.
«Rilascia il vapore!» gridai al mio imbranato braccio destro,
prendendomi gioco di lui.
In realtà, il getto a elevata temperatura era già stato trasformato in
elettricità, ma la nebbiolina che precedeva quel passaggio e che
puntualmente invadeva il pavimento era alquanto pittoresca.
Isaak, munito del suo cipiglio peggiore, afferrò l’ingranaggio grande
quanto un boccaporto e fece leva, inutilmente. Alzai subito gli occhi
al soffitto, dietro le lenti verdognole, indeciso se burlarmi ancora di
lui o mandarlo a stirare le mie camicie.
«In senso antiorario!»
Adeguandosi al compito che gli avevo imposto, il vecchio portò a
termine la sua ridicola missione, così alla fine i tubi di ottone presero
a brontolare e l’interno delle celle divenne iridescente.
Lo schermo che sovrastava le quattro file di tasti s’illuminò sotto il
mio sguardo, indicando che ormai la temperatura era sotto i 180 C°;
quello era il momento del decongelamento.
Attraverso quegli occhiali speciali ero in grado di decifrare il
linguaggio alieno che lampeggiava sullo sfondo traslucido dei
pannelli. Un altro dei sinistri marchingegni che la nostra amata
Imperatrice metteva a disposizione delle classi più abbienti.
Lo scienziato che era in me ringraziò mentalmente quella folle
sovrana che difendeva i suoi segreti con la legge capitale. Solo una
volta ero stato così scellerato da sfidarne l’imposizione e solo una
consistente fetta del mio patrimonio mi aveva evitato la galera.
Lezione imparata, Julian.
«Dèi del firmamento!» esalò intanto il mio primitivo maggiordomo.
Le bestie alte quasi due metri, in effetti, potevano trascendere le
barriere dell’ordinario, ma credevo che ormai si fosse abituato ai miei
pezzi da collezione.
Il maschio che mi apprestavo a risvegliare era ricoperto di squame
ma non era un rettile, bensì un mammifero. Provai a raccontare la
storia di quella coppia di levopodi, ma la scarsa attenzione del basito
servitore mi fece presto desistere. Decisi dunque di continuare col
mio lavoro, facendo defluire il liquido refrigerante nelle vasche e
guidando il corpo viscido e inerme sulla barella contenitiva.
Evitando il getto vischioso per un pelo, afferrai le mandibole
dell'animale per vedere se era in salute.
«Dobbiamo intubarlo» dissi, dopo aver seguito ogni controllo di
prassi.
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